UN GIOCO DA RAGAZZI
Una valigia piena di sogni è l’unico bagaglio che valga davvero la pena preparare prima di un lungo viaggio. Le aspettative, l’entusiasmo e la compagnia sono tutto ciò che ti spinge a partire e loro lo sanno bene. Sei ragazzi, un intreccio di storie diverse e undici ore di volo, quelle che dividono Torino Caselle da Città del Capo.
È ottobre ed è da poco ricominciata la stagione della caccia in montagna; li osservo festeggiare nella cappella di Dario e Vico dopo il primo prelievo dell’anno, una femmina di cervo. Ormai è consuetudine cacciare insieme ai due anziani: la domenica si va nella loro valle ed a fine giornata, con o senza abbattimento, ci si ritrova tutti attorno ad una bella tavolata per festeggiare; le mogli preparano l’immancabile insalata russa mentre Mauro, il cuoco, pensa al primo. È un’ abitudine nata da qualche anno ma che ha già sapore di tradizione: loro i nonni, noi i nipoti acquisiti. Oggi stranamente siamo solo in cinque, ne mancano altri sei per completare il gruppo ma il fracasso di certo non manca.
È da poco passata l’una quando la zolletta di zucchero in ricordo di Gian scompare annegata nella grappa: è l’ora delle discussioni, quelle leggere che finiscono sempre per fare un gran rumore. È bello vedere come ognuno dica la sua senza pensarci su più di tanto: il modo di discutere rispecchia perfettamente il loro carattere. Tutti così diversi ma tutti così inguaribilmente cacciatori.
L’idea di quel viaggio nasce proprio attorno a questo tavolo, dopo uno dei soliti divertenti battibecchi della domenica.
L’Africa è la destinazione, giugno il mese più adatto.
L’entusiasmo dinanzi alla proposta di Andrea è negli occhi di tutti ma l’adesione non può essere, e non è, così immediata. I viaggi così importanti vanno studiati, capiti e metabolizzati ancora prima della partenza; per un gruppo di ragazzi non ancora trentenni con una manciata di anni di caccia sulle spalle è una proposta importante che merita riflessione.
Andrea è l’unico che conosce il Karoo, ci è già stato e ce lo ha descritto come il preludio della caccia in Africa, un terreno capace di dare un assaggio gentile ed allo stesso tempo veritiero di cosa il continente possa offrire. Per le prime volte, a detta sua, è il posto migliore. L’arido entroterra sudafricano soprannominato anche “terra della sete” offre diverse opportunità di caccia, principalmente alle antilopi in scenari montuosi e non. La vera fortuna sarà poter contare su un amico del posto e godere della sua guida: Chris è il secondo di quattro fratelli che vive tra Milano e Cape Town gestendo, da qualche anno, le due riserve di famiglia in Sud Africa. Un appoggio fondamentale, una sicurezza che va certamente presa in considerazione, un incentivo in più per accettare la proposta.
I mesi passano e le conferme arrivano.
Il 7 di Maggio su quel volo per il Sudafrica salgono in sei, ognuno di loro con un bagaglio personale di aspettative. Le storie, i sacrifici e le considerazioni che li hanno portati ad affrontare il loro primo viaggio venatorio sono diverse ma hanno tutte un solo denominatore comune: l’entusiasmo di una prima volta.
All’atterraggio è tutto chiaro: Tomaso e Matteo sono i due estremi di una vasta gamma di obiettivi che i sei si sono prefissati, al cui perfetto centro si colloca Edoardo. Attorno a loro orbitano gli intenti di Nick e degli altri due Andrea.
Il primo citato è facile da introdurre: Tomaso, detto Tumin, sorpassa di qualche anno la trentina ed è per questo il più vecchio della compagnia. Animo aristocratico e baffo arricciato alla Vittorio Emanuele, accompagna il viaggio con la lettura di un saggio su Enrico V. Ha la licenza venatoria da soli cinque anni ma ha già sviluppato una concezione di caccia tutta sua, prettamente legata a ciò che va oltre l’abbattimento. Le sue aspettative anche in questo viaggio ruotano attorno alla convivialità, non ha desiderio di trofeo ma puramente di avventura e condivisione. Al contrario Matteo ha le idee ben chiare su quello che sta cercando: il kudu è il suo sogno nel cassetto, vede in quelle corna avvitate su se stesse il senso del suo viaggio. Ha aspettato quella partenza a tal punto da trascorrere due notti in bianco per l’adrenalina. Il suo volo è stato tempo di ripasso delle specie cacciabili. Il fatto divertente è che i due hanno preso la licenza quasi in contemporanea ma, artefici anche gli undici anni di differenza tra loro, hanno due visioni della caccia molto diverse, motivo per cui il brusio delle loro scornate sarà la colonna sonora della vacanza. Qualche sedile più indietro, elegante e pacato come sempre, è seduto Edo; classe 99, l’ago della bilancia. Le sue prospettive non sono cosí precise come quelle di Matteo ma allo stesso tempo ha le idee ben più chiare di Tomaso: non interessa quale animale l’importante è che la stazza sia imponente, un qualcosa di importante che giustifichi quei 10.000 Km di viaggio.
Ad Andrea ora l’arduo compito. Sa bene che non può deluderli. Sarà lui la guida insieme a Chris ed ad altri due guardiacaccia. Conosce i sogni di ognuno e vorrebbe far sì che si realizzino. Ma alla natura non si comanda e all’Africa tanto meno.
La prima riserva è a 7 ore di macchina da Cape Town e quegli ultimi attimi di trasferimento sono il momento giusto per pianificare: sei cacciatori da gestire sono tanti ma l’area predisposta e l’attenta organizzazione dei gestori rendono il tutto un po’ meno difficile. Si muoveranno a gruppi di due fucili: Matteo con suo fratello Andrea mentre Tomaso ed Edoardo con i rispettivi cugini. Ho deciso che voglio essere anche io spettatrice di quell’avventura; sono qui per girare un video di caccia con l’arco ma dedicherò questi giorni a documentare con qualche scatto la loro esperienza. Mi piace scovare nelle loro espressioni ciò che non riescono a comunicare a voce, scorgere negli occhi la lucidità di una commozione e sulle loro guance le fossette di un sorriso. Cercherò di non essere invadente perché in fondo il bello è catturare ciò che ti vogliono nascondere. E osservandoli ancor prima di prendere il fucile in mano, le mie idee sono già ben chiare: seguirò Matteo perché più di tutti ha gli occhi del sognatore; da quando siamo partiti non ha ancora distolto lo sguardo dal finestrino irrompendo di tanto in tanto nelle nostre conversazioni con domande tecniche sulle abitudini del kudu e di qualche altra antilope da cui sembra letteralmente rapito. Se l’ambizione c’è, qualcosa succederà.
Sono le 15.30 quando arriviamo a destinazione: due ore di luce è quello che ci rimane di quella prima giornata nel Karoo. Scarponi ai piedi e carabina il spalla: l’avventura nel continente nero ha inizio. Chris sarà la nostra guida, penso che abbia i miei stessi pensieri, l’adrenalina di Matteo ci ha rapiti tutti. Anche per una guida deve essere accattivante avere sulle spalle i sogni di un cacciatore. Il Kudu è un’antilope di 200 kg, i maschi sono caratterizzati da due lunghe corna arrotolare su se stesse; vivono nelle valli con cespugli alti in cui possono nascondersi, il che rende più complicata la loro ricerca. La stagione degli amori è iniziata, ciò significa che i maschi sono in movimento alla ricerca della femmine: questo potrebbe essere un buon punto di partenza. Siamo arrivati al momento giusto.
L’istruzione è una sola: silenziosi e vicini. Kris davanti seguito da Matteo e da suo fratello Andrea, io per ultima. L’osservazione è nelle mani dei primi due che di tanto in tanto bloccano l’avanzare della comitiva per alzare il binocolo verso una delle poche valli boscate della riserva. Sono bastate tre veloci binocolate per renderci conto che due grosse femmine di kudu si erano già accorte di noi. La perspicacia e l’allerta sono ciò che contraddistingue tutte queste specie, la presenza di predatori veloci e astuti ha fatto sì che nei secoli ogni potenziale preda sviluppasse dei sensi molto acuti: scappano prima ancora che tu possa accorgerti di loro. L’avvistamento però ci consola, il fatto di essere nella stagione degli amori ci fa pensare che insieme alle femmine possano esserci anche i maschi.
Matteo è elettrizzato, di tanto in tanto si gira verso suo fratello per cercare condivisione alle sue emozioni. Proseguiamo non perdendo mai di vista quel boschetto nella valle: se c’è qualcosa è lì dentro.
Quando il cielo inizia a striarsi di rosa preparandosi a dar loro il benvenuto con un tramonto infuocato, le femmine scappano richiamando la nostra attenzione ma ciò che poteva sembrare a primo impatto a nostro scapito si è rivelato ben presto un giovamento. Siccome otto occhi che scrutano sono meglio di quattro, ci uniamo anche io e Andrea nell'investigazione dell’area: binocolo al viso e occhi scattanti finché un urlo di adrenalina soffocato tra le guance invade il viso di Matteo. Ha avvistato il suo primo kudu maschio e sta facendo di tutto per tenere sotto controllo l’euforia. Ha un corno solo ed è al margine del bosco opposto al nostro. E’ molto difficile che sia stato lui a spingere le femmine, ci deve essere dell’altro. Quell’avvistamento è già stato di per sè una conquista ma qualcosa di grande ci attende. Lo attende.
La caccia è fatta di frazioni di secondo, di movimenti impercettibili che solo chi conosce a memoria il territorio è capace di captare ed è così che abbiamo avuto subito la conferma di essere nelle mani di un buona guida: il binocolo di Chris cade su un'altra ombra sfuggente che scompare velocemente tra i cespugli, proprio a qualche metro dalle femmine. Ha due corna arrotolate e tutte le sembianze di un esemplare di kudu maschio spettacolare. Ora l’aria è davvero elettrica ma bisogna rimanere calmi, ogni manifestazione euforica potrebbe essere una trappola capace di mandare a rotoli il piano. Anche Chris è sorpreso da ciò che ha visto. La calma è ciò che serve. Cerchiamo di ricomporci per proseguire quei 50 metri che ci dividono da un grosso cespuglio dietro cui nasconderci e tentare il tiro: si parla di 300 m ma Matteo ha sulle spalle una carabina di cui conosce ben poco di conseguenza anche il tiro più banale potrebbe rivelarsi azzardato. Prendo la telecamere in mano e cerco di rendermi utile in qualche modo mentre i tre si avvicinano ad un grosso masso su cui trovare una posizione stabile e coperta. Il vento cambia più volte e il sole basso all’orizzonte allunga le nostre ombre rendendo ogni movimento pericoloso. Non abbiamo il lungo nello zaino, motivo per cui cercherò di filmare la scena con la telecamera: per quanto il mio obiettivo da 200 mm non sia adatto allo scopo è sempre una prova in più per verificare a posteriori il colpo. C’è solo una piccolissima parentesi di spazio che il maschio potrebbe percorrere allo scoperto prima di raggiungere le femmine, bisogna intercettarlo lì e sperare che quello sia effettivamente il suo cammino. Inserisco la messa a fuoco manuale che mi segnala con un contorno rosso gli elementi nitidi e mi concentro anche io su quel fazzoletto di terra che tutti fissiamo ormai da qualche minuto. Bastano pochi secondi per renderci conto che il sogno di Matteo si sarebbe potuto realizzare sotto quel primo tramonto africano, quando le due corna ricurve contornate di rosso fanno capolino nello schermo della mia videocamera esattamente tra quei due cespugli di cui avevamo scrutato ogni singola foglia. La tensione di quei secondi interminabili viene letteralmente squarciata da un boato che, nonostante il silenziatore, annienta la quiete della valle e solleva un enorme polverone. Il terreno arido è insidia, i binocoli non capiscono e le sagome vengono inghiottite da quel bush fitto. Dubbi e perplessità sono ciò che resta quando la nuvola di terra si dissolve, permettendoci di intravedere la situazione: gli animali sono spariti. Non ci sono certezze del colpo se non sulla mia fotocamera a cui rimangono appese tutte le speranze. Rallentiamo velocemente il video ma le dimensioni ridotte dello schermo non ci permettono di capire le dinamiche, lo zoom non è stato sufficiente e per essere un po’ più certi avremmo bisogno di un computer. Impossibile. Il sole sta tramontando e l’unica cosa che possiamo fare è dirigersi sull'Anschütz in cerca di prove. Chris afferra la carabina e si prepara a guidarci nel bush: sarà lui a tenersi pronto per un’ ipotetica carica dell’animale ferito. Non abbiamo a che fare con bufali, ci spiega, ma sono animali di 250 kg che, se feriti, possono attaccare, meglio essere prudenti. Ora alla fobia dei serpenti che accompagna ogni mio passo da quando sono qui si aggiunge la tensione di una possibile carica: questa Africa mi distrugge. L’adrenalina sul viso di Matteo si trasforma in titubanza mentre ci racconta del tiro poco stabile e del sole che rifletteva nell’ottica. Il suo sogno si è appannato. .
Arriviamo sul posto e diamo una spiegazione a tutto quel polverone: l’animale era caduto al momento dell’impatto con la palla per poi ri-alzarsi e scappare ma sul terreno non c’erano gocce di sangue, non una minima conferma che l’animale fosse effettivamente preso. La situazione si complica e il buio incombe, in quelle condizioni dobbiamo rientrare.
In attesa dei cani da traccia la mattina seguente, quella sera neanche il focolare acceso di quel bellissimo lodge riesce a risollevare gli animi e anche quel mare di stelle che ci sovrasta per Matteo non merita la pena di essere contemplato.
Il bassotto di Louis ha bisogno di tranquillità per lavorare, non possiamo rimanere lì ancora per molto o inquineremo le tracce, dobbiamo allontanarci e lasciare fare a loro. Quella mattina siamo accorsi quasi tutti per aiutare nelle ricerche e ora sfrutteremo il tempo per dedicarci ad un’altra avventura.
La carabina passa a Tumin non appena individuiamo dall’altra parte della valle un gruppo di springbok. La riserva è densamente popolata da animali, se non si è alla ricerca di qualcosa in particolare non è difficile effettuare un prelievo. Quello che si è appena configurato sembra proprio lo scenario perfetto per chi ha deciso di viversi l’esperienza africana senza un obiettivo preciso. Lo springbok è uno degli animali più frequenti in questa zona ma anche uno dei più diffidenti: il gruppo che abbiamo a 400 metri è composto da maschi e femmine che hanno avvertito la nostra presenza e si stanno lentamente apprestando a svallare. La prontezza è quello che serve anche in questo caso. Siamo troppi per muoverci tutti insieme, io aspetterò qui. Li vedo scomparire in fila indiana nel buio della collina mentre le sagome degli animali svettano contro cielo in un bellissimo disegno di skyline con cui l’Africa inaugura il nostro secondo giorno. In qualche minuto sono spariti anche loro e non essendoci più niente da osservare mi addormento nel cassone del pickup riscaldata dai primi raggi del mattino. E’ autunno inoltrato in questa terra e l’escursione tra il giorno e la notte è pazzesca: non appena il sole tramonta si arriva a sfiorare gli zero gradi, motivo per cui il tepore della luce dell’alba sembra sempre una benedizione. Il mio risveglio non è accompagnato da nessuna novità se non da un vociare in lontananza che mi fa pensare che l’azione di caccia sia terminata. Poi dall’ombra della collina appaiono anche le sagome di quattro ragazzi e un animale. Mi sono persa tutto ma mi farò raccontare.
Ogni cacciatore ha le sue priorità e io sono contenta di aver assistito in prima persona alla dimostrazione che la caccia può esistere anche in assenza di trofei e carnieri importanti. Quell’animale non aveva nessun corno sul capo ed era stato scelto tra altri proprio per questo: era una femmina di springbok prelevata da Tomaso per essere condivisa attorno ad un braciere acceso. Era partito da Torino con quell’idea di convivialità che lo ha sempre contraddistinto e anche questa volta non era venuto meno alle sue promesse. Quella sera mangiammo attorno ad un falò e il cielo ci sembrò molto più luminoso, anche se la speranza di trovare il kudu di Matteo era svanita nel tardo pomeriggio con le parole sentenziose di Louis. Quell’animale così importante gli aveva dato l’assaggio di un sogno, forse un po’ troppo grande per un cacciatore alle prime esperienze. Sarà difficile trovarne un altro così bello, d’ora in avanti bisognerà accontentarsi: “Chi troppo in alto sal, cade sovente precipitevolissimevolmente”.
La condivisione però è cura. E così è successo.
A metà di quella settimana, nella pianura alle pendici del Compass-Berg c’è un jeep che insegue il sole: solca la strada sterrata alzando un grosso polverone e disegna in quell'altipiano sconfinato l’epilogo di una nuova storia. Sui sedili posteriori sobbalza un nuovo cacciatore, con lo sguardo perso nel tramonto e la faccia rigata di sangue rappreso.
E’ Andrea, fratello di Matteo, che ha appena ricevuto il battesimo dell’Africa.
Partito dall’Italia senza nessuna esperienza di caccia, convinto di rivestire le vesti di accompagnatore, dopo essersi emozionato per le avventure del resto del gruppo aveva deciso che il continente nero sarebbe stato anche per lui una prima volta: avrebbe imbracciato il fucile e dopo qualche giorno di allenamento al poligono avrebbe provato a prelevare ciò che la natura aveva da offrirgli. C’è da sottolineare che la caccia nelle riserve sudafricane è consentita anche a chi è privo di licenza, previa autorizzazione del concessionario e lui aveva deciso che non si sarebbe lasciato scappare questa opportunità. Sfiorando il grilletto con l’indice tremolante aveva fatto sì che la vita di un impala maschio incontrasse la sua. Adesso gli accarezzava quel pelo soffice ancora con gli occhi lucidi: in quella culla dell’umanità gli istinti primordiali avevano bussato alla sua porta e così aveva scritto un pezzettino in più della sua storia. Non avrebbe potuto scegliere compagno migliore se non suo fratello Matteo che con quell’emozione era forse riuscito a sanare un po’ di quella profonda malinconia che da giorni lo tormentava. Gli occhi sembrano sereni, il cuore non si sa.
Il tempo stringe e le speranze si annuvolano, come il cielo che ora minaccia pioggia. I prossimi giorni saranno decisamente freddi e umidi ma c’è ancora bisogno di credere nei sogni: ci sono aspettative da non deludere e Andrea sente il dovere di farsene carico. I suoi amici fanno affidamento su di lui, non può deluderli. A pranzo parla poco e sembra che stia architettando qualcosa di importante; non sarà la pioggia a fermarlo. Inghiottito l’ultimo pezzo di pane imbevuto del sugo al pomodoro rimasto nel piatto, si butta addosso l’impermeabile ancora bagnato e prepara la carabina. C’è una zona della riserva in cui nessuno è ancora andato: lui, Chris e Edo andranno lì. L’obiettivo è accattivante, gli animali di grossa stazza sono un'iniezione di adrenalina di cui tutti hanno bisogno.
Il pickup risale la vallata mentre gli occhi cercano di scrutare il paesaggio facendosi largo tra le grosse gocce d'acqua che rigano il finestrino; la nebbia bassa complica ulteriormente le cose ma una frenata brusca riaccende le speranze. A 600 metri tre sagome nere di blue wildebeest interrompono la continuità dell' altopiano. Una frazione di secondo e la pioggia scrosciante è tornata a scorrere sui loro cappucci. Acquattati a terra diventano anche loro sagome scure di quella pianura, guadagnando altri 200 metri. Oltre non è possibile andare, non ci sono più cespugli con cui nascondersi: bisogna fermarsi qui. 400 metri su un animale di 300 chili sono tanti ma non c’è più tempo per aspettare, potrebbe essere l’ultima opportunità dei prossimi giorni, bisogna rischiare. La precisione deve essere chirurgica. Chris suggerisce di mirare il polmone che nello gnu è molto esteso: l’unico punto che garantisce la riuscita del tiro e scongiura un recupero pericoloso. La pressione su Edo è tanta ma non sembra scomporsi: anche sotto tutta questa pioggia la sua compostezza ha dello straordinario. Trova un termitaio su cui appoggiarsi e spara. Il colpo finisce esattamente dove doveva ma lo gnu non sembra accusarlo: c’è n’è bisogno di un secondo e poi anche di un terzo prima di vederlo cadere a terra. Qualsiasi animale, anche l’antilope più gracile, qui ha una resistenza singolare, complice il pelo molto spesso che impedisce la fuoriuscita di sangue.
Sotto quel fiume di acqua, ad un solo giorno dalla partenza, anche il sogno di Edo sembrava essersi realizzato.
Ci avviciniamo con estrema prudenza e la carabina carica per poi accorgerci ad una manciata di metri che l’animale era ancora vivo. Il quarto colpo pone fine ad ogni sofferenza e corona un’avventura che fino all’ultimo lo aveva lasciato in preda a grossi interrogativi sulla sua riuscita.
Dalla radio di Chris una voce stropicciata cerca di mettersi in contatto con noi: è quella di Louis, la guardia, che si annuncia con un indecifrabile “It’s done”. Per noi, totalmente ignari di quello che era effettivamente successo suona come una conferma alla riuscita della nostra cacciata. Non gli diamo certamente l’importanza che merita quell’affermazione finchè la conversazione tra i due prosegue e tutto ci è un po’ più chiaro: Chris aveva voluto dare una seconda possibilità a Matteo che era riuscito a prelevare il suo kudu.
Anche l’ultimo tassello di questo puzzle di sogni aveva trovato il suo posto.
Mamma Africa aveva premiato chi, nonostante una pioggia di sventure, non si era arreso a vedere le proprie speranze svanire.
Accorremmo tutti a vedere quel kudu e io scattai una foto.
Sono sei i ragazzi che sorreggono quel paio di corna avvitate perché in fondo il potere della condivisione è il regalo più grande che l'Africa poteva farci.