NUOVA ZELANDA - IL RICHIAMO DELLA MONTAGNA
Esistono terre che sono richiami, paesaggi diventati miraggi e viaggi trasformati in chimere. Ci sono sensazioni innate che guidano i cuori più avventurosi verso mete ai confini del mondo dove per sopravvivere ci si carica solamente del peso dell’essenziale. Per ogni spirito selvaggio che abita questo mondo la Nuova Zelanda è tutto questo: due isole allo stato brado avvolte da un oceano ruggente in cui ogni granello di sabbia è espressione di libertà.
É il primo anno che ci spingiamo così lontano con le nostre telecamere ma il distacco dal mondo che queste montagne sussurrano è quello di cui siamo alla ricerca: #BeWild è nato per riunire chi, come Andrea e Giulia, ha deciso di fare della caccia uno stile di vita e che ci auguriamo ritrovi nelle nostre avventure tutti i sogni e le aspirazioni più forti.
Ma per ora ci basta che vi lasciate impressionare da qualche curiosità.
La Nuova Zelanda è uno dei pochi stati che compongono l’Oceania e, pure essendo il punto più lontano del mondo che un italiano possa raggiungere, le similitudini che si possono fare sono davvero particolari: la stessa forma a stivale, questa volta rovesciato, caratterizza la sua immagine dal satellite così come la sua latitudine è pari a quella italiana riflessa nell’emisfero australe. Se poi ci si sofferma sull’estensione possiamo affermare che, anche qui, le due non si discostano poi tanto. Detto questo però la differenza balenante sta nella densità di popolazione che vive concentrata nelle grandi città lasciando all’isola quelle aree vergini e intoccate che la contraddistinguono. La sensazione di “irraggiungibilità” ha rapito i nostri occhi stanchi mentre sorvolavamo la costa ovest dell’isola del sud, in attesa di raggiungere l'aeroporto di Christchurch per atterrare: il susseguirsi di immense valli innevate senza strade né case ha caratterizzato il paesaggio che per l’ultima mezz'ora di viaggio è scivolato sotto la pancia del nostro aereo. Ogni avventuriero di quel volo in fondo avrebbe soltanto voluto trovarsi nel bel mezzo di quelle valli, anzi, nella più inaccessibile, per scoprire cosa voglia dire contare su se stessi e, forse per la prima volta, sopravvivere per davvero. Quell’ aereo da 400 posti si era svuotato nello scalo a Sydney e adesso ogni passeggero aveva un posto finestrino per godersi lo spettacolo.
Non smetterò mai di sostenere che le emozioni che ti assalgono all’atterraggio valgono, da sole, l’intera esperienza; che il viaggio va vissuto come se fosse lui stesso già parte dell’avventura perché volare per 20.000 km, per un totale di quaranta ore di trasferimento, è di per sé una delle esperienze più incapibili e straordinarie che l’evoluzione umana possa regalarci.
E va apprezzata, ogni volta che ce ne viene data l’occasione.
Il viaggio su quell’isola era iniziato prima ancora di poggiare i piedi per terra e quelle montagne erano già diventate, per Andrea soprattutto, una calamita potente.
Un’altra particolarità della Nuova Zelanda è legata alla sua fauna. L’unica specie autoctona che valga la pena menzionare è il kiwi, diventato simbolo nazionale: un volatile senza ali, con un becco lungo simile alla beccaccia che usa per scavare il terreno. Tutti ne parlano ma nessuno sembra averlo mai visto; e se qualcuno si stesse chiedendo il perchè del suo nome, basta cercare una sua foto per capirlo.
Ma il fatto assurdo è che non esistano mammiferi endemici: i coloni provenienti dall'Australia introdussero gli opossum per sfruttarne la pelliccia. Tuttavia, questo ha sconvolto l'equilibrio faunistico del Paese mettendo a rischio anche la sopravvivenza del kiwi, motivo per cui I neozelandesi sono decisamente attivi nel tentativo di estirpare gli esemplari di opossum, e non solo. Per gli amanti della caccia all’ungulato è nota la presenza di grandi cervi, camosci e tahr, anche loro importati e che ora sono diventati oggetto di importanti prelievi. Ci sono bastate poche ore sul territorio per scoprire che l'abbattimento di gran parte di questi animali si svolge in battute chiamate “calling” effettuate dagli elicotteri; per mandato del governo neozelandese questi si sono intensificati negli ultimi mesi e sono finalizzati all'eradicazione di qualsiasi specie alloctona. La strana manovra ha comportato che gran parte degli animali si rifugiassero in zone molto rocciose e impervie per nascondersi, rendendo gli avvicinamenti alquanto difficili, specialmente per chi, come noi, ha scelto di cacciarli con zaino in spalla. Questo particolare, scoprirete, ha avuto riscontri significativi anche per noi, rendendo allo stesso tempo il successo della cacciata una sensazione di soddisfazione mai provata prima. Anche questa volta, come spesso accade ai cacciatori di montagna, l’appagamento è frutto del sacrificio e della dedizione. Ma a questo ci arriveremo.
Abbiamo imparato che al preludio di ogni avventura è meglio prendersi del tempo per organizzare: siamo arrivati qui sapendo che non sarebbe stato facile e di conseguenza abbiamo fatto in modo che tutto ciò che di prevedibile ci fosse, avesse una soluzione; dedichiamo quindi il primo giorno all’organizzazione e all’assimilazione delle dieci ore di fuso orario che sembrano sempre più ingestibili. Abbiamo una guida del posto, Ayden, che ci seguirà nei primi giorni e con il quale ci siamo dedicati alla preparazione delle munizioni.
Trascorriamo la prima settimana nell’entroterra di Ranfurly, in un ranch tra le dolci colline verdi puntinate da migliaia di pecore merino di cui il paese è famoso esportatore. La prima sensazione è stata quella di una tranquillità appagante: il paesaggio dalle forme morbide e dai colori saturi crea un senso di bellezza che dagli occhi arriva dritto al cuore. L’assenza di serpenti, diventati ormai un incubo persistente nel precedente viaggio in Africa e qui inesistenti, ha contribuito a rendere le giornate ancora più serene. Gli alberi bassi e radi che di tanto in tanto sbucavano da quel tappeto verde, completavano quel quadro che assomigliava sempre più al disegno di un bambino: ancora niente a che vedere con quelle montagne ripide e severe che, come sentinelle, accerchiavano l’area in attesa del nostro arrivo.
Questa fase di acclimatamento diventerà più utile del previsto.
Fin da subito le nostre energie sono sul tahr: questo animale affascinante, capra molto simile al camoscio come abitudini, vive su pareti rocciose spesso di difficile accesso; ciò che lo contraddistingue è un pelo lungo e liscio che all’impatto con la palla ondeggia come una folta chioma. Sappiamo bene che questa potrebbe essere una delle poche possibilità concesse a Giulia per prelevarne uno: le sue vertigini non le permettono di raggiungere aree esposte che purtroppo qui sono la normalità. Il problema la infastidisce parecchio ed è stato uno dei motivi che l’hanno resa titubante davanti alla partenza. Ma ora è qui e non si tirerà indietro davanti alle prime difficoltà che, tuttavia, si palesano subito in modo violento.
Binocoliamo il primo tahr la sera stessa del nostro arrivo.
Fortuna e sfortuna allo stesso tempo: la popolazione di quest'area non ha le densità delle zone più interne e l’individuazione del capo conforme la prima sera non era assolutamente scontata d’altra parte però, con la stagione degli amori e l’inverno alle porte, i maschi sarebbero dovuti essere in zone più accessibili ma così non sembra essere. La difficoltà è stata riuscire a scovarlo a distanze così lunghe tra la moltitudine di wild goats (capre selvatiche), anche loro considerate nocive e quindi oggetto di prelievo, che popolano quest’isola. L’indomani mattina sappiamo di dover arrivare su quella cresta e sperare che il tahr di Giulia sia ancora lì.
Trascorriamo la prima sera al ranch combattendo contro il sonno e i dubbi che ci assalgono: lo scoppiettio sempre più affievolito della stufa, unica fonte di riscaldamento, accompagna l'ultima partita a burraco mentre Andrea cerca di pianificare con Steve l’avvicinamento.
Ci sono situazioni in cui è vietato rischiare, questa è una di quelle. Ogni passo falso può allontanare un sogno, quello di Giulia, o ancora peggio, metterci in una situazione complicata in cui nessuno di noi siamo certi voglia trovarsi. É per questo che dico che la caccia, quella di montagna specialmente, richiede strategia, parecchia strategia.
I lunghi fili di erba gialla gelata si sbriciolano sotto i nostri piedi e gracchiano sfiorando le ghette: le immense praterie che hanno fatto da sfondo alle avventure del Signore degli Anelli ora sono realtà. Davanti a quel paesaggio sarebbe bello rimanere fermi a contemplare ma questa mattina non c’è tempo per la poesia, anche se quel posto ne racchiude davvero tanta. Per ora niente di complicato, anche il fondo melmoso di quell'altopiano è gelato e tutto sommato si cammina bene: dobbiamo attraversarlo tutto per riuscire ad avvicinare l’animale da sopra. Un percorso inverso a quello che ci aspettavamo la sera precedente quando eravamo nel fondo del canyon a binocolare verso l’alto ignari che ci fosse un altipiano a facilitare le cose; Giulia dovrà sparare dall’alto verso il basso.
Ma facciamo un passo indietro: bisogna trovare il tahr.
Il primo ad affacciarsi al precipizio è Steve, il proprietario del Ranch, arciere e farmer molto competente, che con cautela e freddezza si sporge con il suo binocolo seguito prima da Andrea e qualche metro dopo da Giulia.
Se finora le vertigini non avevano senso di esistere, in un attimo diventano un problema: sotto di noi si aprono 500 metri di parete rocciosa di tanto in tanto intervallata da grossi cespugli; anche un eventuale recupero è da valutare.
Dopo qualche minuto la zona è stata scandagliata: il tahr non è più dove lo avevamo visto, proviamo a rientrare e riaffacciarci sul canalone successivo.
E così facciamo per altre tre gole. Niente. Non possiamo nemmeno essere delusi perché consapevoli che la fortuna ci aveva palesemente baciati già la sera prima permettendoci di avvistarne uno; non potevamo chiedere molto di più. Seguiamo in silenzio il disegno della vetta frastagliata che di tanto in tanto rientra verso la prateria.
Quando ormai i brillantini di ghiaccio che ricoprivano quella valle si erano spenti sotto il sole vivace delle 10, uno stop improvviso ferma il nostro avanzare: il palmo della mano sinistra allargato all’altezza del bacino di Steve ci ordina di restare immobili.
Qualcosa sta accadendo ma possiamo solo immaginare cosa.
Quei secondi di immobilità scorrono come ore finché le dita riprendono a muoversi facendo segno di avanzare velocemente verso il margine del precipizio. Nel bel mezzo di quei brandelli di rocce che l’acqua aveva profondamente scavato, un ammasso di pelo lungo si muoveva disinvolto facendo rotolare a valle delle piccole pietre che, cadendo, avevano attirato l’attenzione della nostra guida. Il pensiero ritorna alle nostre valli, quando, nel periodo della caccia al camoscio, Andrea è solito cogliere questi dettagli per scovarne la presenza. Sono i particolari che fanno la differenza, sempre!
Il momento non mi ha dato la freddezza di riflettere su come fosse possibile che un essere vivente camminasse in quell’ambiente senza precipitare: sono pensieri e domande che inevitabilmente giungeranno poco dopo.
Giulia afferra la carabina che aveva a spalle e la passa ad Andrea: la roccia da raggiungere per tentare lo sparo è troppo esposta per non avere entrambe le mani libere; l’emozione dell’avvistamento deve necessariamente essere domata, prima la sicurezza e poi tutto il resto. È straordinario e allo stesso tempo preoccupante l’effetto dell’adrenalina sul corpo: sono sicura che in assenza di un obiettivo così stimolante come è in questo momento il tahr per Giulia, non sarebbe mai e in alcun modo riuscita ad attraversare quel passaggio; speriamo a questo punto che faccia scorta di adrenalina anche per il ritorno. Intanto Andrea, già arrivato al grande masso, prepara la carabina e inserisce il colpo in canna. L’animale non ha avvertito la nostra presenza e ciò ci permette di fare le cose per bene: sdraiarsi, imbracciare e mirare.
Il pelo lungo riflette i raggi di sole mentre un sibilo dell’aria attraversa la valle in ombra. Il corpo rotola e poi si rialza, poi rotola di nuovo e infine si ferma.
L’unica roccia piatta di quel canale è uno spiraglio di riuscita.
Il sogno è vero per metà.
Un abbraccio di sollievo, l’adrenalina cala e il sangue torna a irrorare la mente: forse il peggio deve ancora venire. La certezza è che Giulia non proseguirà. Il recupero è nelle mani di Andrea; spogliarsi del superfluo è il primo passo.
I tre ragazzi scompaiono sotto il grande masso e quello che è successo lo scopriremo solo la sera, quando ci verrà raccontato. Riaffiorano due ore dopo quando l’oro di quell'altipiano ri-accoglie le tre sagome: il primo regalo di questa terra poggia sulle spalle di Andrea. Il sogno è avverato: il colletto di pelliccia che incornicia il volto di Giulia è il trophy shot più ambito da ogni cacciatore di tahr, quell’odore violento di selvatico che impregna ogni indumento sarà, nel bene e nel male, un ricordo indelebile.
Ogni giorno trascorso al ranch ha regalato esperienze uniche. Il clima freddo della notte ha favorito la caccia all’ungulato del mattino, lasciando al pomeriggio lo spazio per la caccia “alla piuma” intervallata da lunghe passeggiate a cavallo; è proprio durante il pranzo dell’indomani che ci viene proposta una cacciata al tacchino, una di quelle esperienze che i video americani sono capaci di decantare come la più bella avventura di sempre a alla quale i ragazzi inevitabilmente non sono riusciti a resistere.
Ma c’è un animale in particolare che abita e regna sovrano in queste terre, un gigante su cui tutti fantasticano, dalla stazza imponente, l’animo regale e il palco colossale. Il cervo. Qui, la specie è stata introdotta poichè l’ambiente adatto e l’assenza di predatori ne avrebbero favorito la riproduzione; e così è stato. Le manipolazioni genetiche degli anni hanno selezionato esemplari mastodontici che oggi attirano cacciatori da tutto il mondo ma proprio a questo riguardo Andrea e Giulia hanno deciso, con unanime consenso, che il focus sarebbe stata l’esperienza e non il trofeo, ma credeteci se vi diciamo che anche il più piccolo dei cervi neozelandesi è comunque molto più grosso della media dei cervi italiani. L'appuntamento con il Re era quindi inevitabile e la strada di uno di loro ha incontrato quella di Andrea proprio su quelle colline dipinte a mano. Cosa è successo ve lo lasciamo scoprire attraverso le immagini che abbiamo girato in quella freddissima mattina e che usciranno nel mese di Novembre su YouTube, così potrete constatare con i vostri occhi cosa vuol dire essere un “mediocre” cervo della Nuova Zelanda. Scelgo volontariamente di non dirvi niente di più perchè per descrivere l’emozione di quell’incontro non so trovare parole, ognuno di voi ne avrebbe di più giuste e in fondo l’incanto di sorprendere con immagini e musica sarà sempre una delle soddisfazioni più grandi per un videomaker.
Quindi lasciatemi mandare un po’ avanti questa avventura.
Le montagne chiamano e noi sentiamo la loro voce, forte e chiara.
Siamo pronti a lasciare il supporto di chi ci ha accompagnati fino a qui, cerchiamo l’essenza ultima dell’avventura e siamo qui per sperimentarla.
La nostra destinazione è l’Ahuriri Valley, una delle ultime terre ai confini del mondo.
Nei mesi precedenti abbiamo studiato attentamente questa fase del viaggio, la più impegnativa dal punto di vista fisico: sappiamo che le possibilità sono poche e tutte da sfruttare. Andrea ha deciso di dedicare questi spazi immensi alla ricerca del suo tahr: ha sentito il richiamo di queste montagne già dall’aereo ma ora che è qui sono ancora più belle.
Il solco prosciugato del fiume è un’ottima traccia da seguire per raggiungere il primo hut; il territorio neozelandese, a riprova del fatto che è un paese per avventurieri, è costellato di piccoli bivacchi, chiamati appunto “hut” dotati di brandine e stufa: il resto per la sopravvivenza lo abbiamo nei nostri zaini che ormai hanno assunto delle dimensioni disumane. La speranza è quella di non trovarlo occupato o ci toccherà proseguire fino al prossimo. Con un po’ di fortuna, che è sempre bene avere dalla propria parte, troviamo un gruppo di ragazzi in partenza e mai notizia fu più gradita. Ricordo bene quando ho aperto la porta di quella piccola casetta ai piedi della pineta: le aspettative erano davvero minime, ci eravamo preparati al peggio, di conseguenza i letti a castello e il tavolo di legno all’interno ci sembravano quasi un lusso che non potevamo concederci. La vita nell’hut è quello che ha segnato di più il viaggio: le salsicce attorno al braciere, le partite a scopa alla luce delle frontali, il risveglio freddo della mattina, il topino con cui abbiamo condiviso la stanza, il bagno nella pineta, il ritorno della sera ad una casa che casa non era ma che aveva tutto il sapore di un accogliente giaciglio, perchè in quell’immensità quattro assi di legno e un camino fumante erano decisamente casa.
Il silenzio e la vastità di quella valle ci avvolsero fin da subito nelle lunghe ore di osservazione che segnarono il primo giorno. Un lungo e tre binocoli erano ciò a cui le nostre speranze si erano aggrappate. Chilometri e chilometri di valli scandagliate all’imbrunire non avevano ancora segnalato la presenza di animali: qualche traccia vecchia sulla neve di una cima irraggiungibile erano gli unici indizi che eravamo riusciti a scovare. Occhi spenti e visi allungati, eravamo diventati uno la copia dell’altro. Per combattere il freddo che ormai aveva paralizzato gli arti, ci muoviamo saltellando sulla stradina di ghiaia. Il binocolo di Andrea, ultimo a ritirarsi, si concede ancora una passata, quella importante, quella fondamentale. Quella necessaria.
Tra le ombre dell'imbrunire che rendono ogni sagoma un tranello c’è un oggetto in movimento; di lì a poco anche il lungo confermerà la silhouette di due tahr: quasi impossibile decretarne il sesso.
Come un cerino quasi spento che riaccende la brace ancora calda del caminetto, gli occhi tornano a brillare. È di nuovo una di quelle sere in cui serve pianificare; questa volta lo faremo al buio, senza le comodità di un’accogliente casa di caccia ma con l’animo trepidante di entusiasmo e con un’unica costante: la compagnia di un fuoco nel braciere.
Siamo alla vigilia di una delle avventure più belle della vita.
Sarà un ricordo che qualcuno ha voluto custodissimo solo noi due: Giulia l’indomani non ha più trovato il sangue freddo per scalare quel versante, una scelta coraggiosa che però ha dovuto prendere.
Quella casetta nel bosco ci ha visti tornare dopo undici ore di cammino. Sapeva ancora più di casa, perché ogni posto in cui uno ha voglia di tornare si può chiamare casa e noi in quel momento quella voglia la sentivamo davvero tutta.
In quella lunga giornata abbiamo fatto 900 metri di dislivello, attraversato una foresta di alberi caduti talmente fitta da sentirne l’umidità sulla pelle; e sopra di lei praterie ripidissime di erba pungente. Abbiamo collezionato rigagnoli di sangue sulle gambe e centinaia di punture di insetti sul corpo. La paura di non riuscire a tornare in tempo per la notte mi ha fatto tremare le gambe e intimorire il cuore così come la voragine di rocce che abbiamo attraversato. La neve ha bagnato i nostri scarponi e il sole bruciato la pelle, la tracolla del fucile solcato le spalle e la pettorina della telecamera sbilanciato il passo.
Abbiamo trascorso quattro ore dietro un grande masso in attesa dell'animale giusto che giusto non era; così siamo andati noi a cercarlo dove pensavamo che fosse. E lui era lì. Ma con lui ce n’erano tanti altri, giovani e vecchi, maschi e femmine. Ancora una volta abbiamo assistito a una corsa di lunghi mantelli di pelo su quelle rocce inaccessibili, diventati per loro rifugio e trappola sotto i fucili volanti degli elicotteri; ne abbiamo contemplato l’agilità e la bellezza. Ci siamo chiesti se mai avessero visto qualche umano così da vicino. Abbiamo affidato all’uno la sicurezza dell’altra calandoci in un recupero troppo impegnativo per l’imbrunire e abbiamo preferito rimandarne la conclusione. Ci siamo fidati l’uno delle capacità dell’altra per ritrovare la via del ritorno in quella foresta vergine che mai nessuno aveva attraversato.
Quella sera il focolare era più caldo, il sacco a pelo più comodo e il cibo liofilizzato molto più buono. Noi eravamo più coppia, tutti più amici.
Abbiamo abbandonato la civiltà per poterci ritornare convinti che il solo modo per colmare un cuore avventuroso sia catapultarlo quassù e allora la domanda ci sorge spontanea: riuscirà un video ad essere richiamo?
Questa la sfida più bella che ci siamo lanciati sorvolando per l’ultima volta quelle valli: faremo di tutto perché l’eco di quella montagna giunga fino a voi.