NAMIBIA- Profumo D’Africa


Immagini, suoni, sensazioni. Soprattutto profumi, quelli che pervadono la gola e diventano la fragranza di un ricordo, allo stesso modo in cui una colonna sonora è memoria di un film. Qui ogni brezza di vento raccoglie qualcosa di questa terra orchestrandone un’essenza capace di riportare chiunque ne abbia mai percepito l’odore ad un preciso istante. Fermo nella memoria. 

Nella mia è impresso quello della polvere che abbandona la terra arida sotto gli zoccoli delle mandrie al galoppo; quello dei cespugli aromatici che permeano la carne degli animali che se ne cibano; quello umido della sera che scende sopra i bracieri fumanti; quello inconfondibile che caratterizza la pelle dei popoli che la abitano. I miei ricordi qui sono fatti di profumi; nient'altro è rimasto così indelebile.

Il giorno della nostra partenza, insieme all’immancabile agitazione dalla quale non penso guarirò mai, mi accompagnava anche qualche perprlessità: avrei voluto che questo viaggio arrivasse più avanti, o meglio, con altre circostanze; avrei preferito che la mia prima volta nel continente nero non fosse accomagnata da esperienze di caccia. Nella mia ignoranza, che è forse quella di molti, associavo inconsciamente questa terra alla caccia grossa, quella all’elefante, al leone, alla quale non ero, e forse non sono, pronta. Una caccia che doveva ancora essermi spiegata per bene e che ancora avrei dovuto capire e assimilare: ci sono dinamiche, alcune più di altre, che non possono essere fraintese. In fondo per superare un'immagine infantile fatta di fiabe sugli animali della savana avrei dovuto avere delle motivazioni importanti e giustificate per assistere con coinvolgimento alla loro caccia. 

Un passo per volta, ahimè tutto per me deve avere un perché.

La scelta di volare in Namibia ha aiutato molto il mio percorso di “avvicinamento”. Questa terra permette un approccio perfetto e graduale a quell’idea di Africa selvaggia che ognuno di noi ha in mente. Ogni regione è diversa dall’altra: lo spettacolo delle dune rosse di Sossusvlei lascia spazio alla bianca depressione salina dell’Etosha passando attraverso la savana e le immense spiagge dell’Oceano. Ogni paesaggio porta con sé immagini ed esperienze diverse. Non ci sono tensioni interne per cui anche il requisito della sicurezza, importante in questi casi, è rispettato. La visiteremo tutta, da nord a sud, in un viaggio on the road di venti giorni per assaporarne ogni sua sfaccettatura.

#BeWild , la nostra serie, però si nutre di caccia ed è da lì che partiremo.

Le nostre telecamere hanno bisogno di azione ed adrenalina di cui la riserva di Klein Barmen è un pozzo generoso: una capanna dal tipico tetto di paglia a due ore di macchina da Windhoek, la capitale, sarà casa per i primi dieci giorni.

Impossibile non notare l’alta recinzione elettrificata e il grosso cancello che proteggono l’area: qui non c’è nessun altro animale in gabbia se non noi! Tutto il territorio africano è suddiviso in grandi distese da migliaia di ettari , ognuna privata e di conseguenza gestita: su distese così importanti diventa praticamente impossibile parlare di recinti, gli animali vivono decisamente allo stato brado. La zona è molto pianeggiante e questo influenza le stesse tecniche di caccia, dalla ricerca che richiede l’altezza della jeep allo sparo che è quasi sempre dal bastone e che avrebbe richiesto più allenamento di quanto Giulia e Andrea ne avessero.

Le caldissime ore centrali della giornata sono state scandite da tortuosi trasferimenti a bordo di un vecchio defender allestito da safari capace di mettere a dura prova le vertebre di qualsiasi passeggero ma l’immagine che siamo riusciti a catturare con il dorne del piccolo trabiccolo che si sposta sulla strada polverosa è davvero una metafora di questo viaggio: l'insignificanza della nostra presenza in una vastità di spazi come quelli africani.

L’autunno avanzato di Giugno avrebbe dovuto portare un’importante discesa delle temperature, dettaglio percepito principalmente la notte dove la forte escursione termica rispetto alle ore diurne ha fatto precipitare il termometro sotto lo zero, lasciando però invariati i 35 gradi del pomeriggio con l’intuibile conseguenza di cacciate fruttuose nelle prime ore del mattino e nelle ultime della sera. 

Una delle sorprese più belle arriva proprio al tramonto del primo giorno.

La caccia a palla è ciò che nell’immaginario comune rende l’Africa un'attrazione per molti appassionati di viaggi venatori, ma siamo pronti a smentire quanto appena affermato.

La sorpresa più emozionante è arriva dal cielo, un cielo color fuoco che improvvisamente si tinge di nero.

Avevamo sentito parlare delle Sand-Grouse, qualche amico ci aveva raccomandato di non perderci la possibilità di un appostamento al tramonto ma mai avremmo pensato di vivere qui, tra la sabbia del deserto, una delle esperienze più emozionanti per la vita di un cacciatore di piuma. Niente cani, qui considerati alla pari del bracconaggio, solo una pozza d'acqua ed un animo silenzioso capace di attendere. Abbiamo osservato il cielo tingersi di tutte le sfumature di giallo, poi diventate arancioni ed infine rosse, visto le nostre speranze affievolirsi al trascorrere dei minuti ed i nostri occhi riempirsi di incredulità qualche secondo dopo. Nell’ombra di un cespuglio a bordo di quella pozza quasi prosciugata abbiamo sentito per la prima volta il rumore di un battito d’ali poi, come una raffica di vento scagliata dal cielo, quello di decine di ali ed infine centinaia; qualcuna di queste ha terminato il suo volo inerme tra la polvere della sabbia, qualcun’altra dopo essersi abbeverata ha continuato il suo viaggio verso quella palla infuocata che stava scomparendo sotto l’orizzonte. Ogni elemento in quell’istante sembrava studiato artificialmente da qualcuno per rendere l’atmosfera surreale: i colori, i suoni, i profumi. Ecco, se dovessi scegliere un momento, uno solo, da custodire avrei cura di questo. 

Odorava di polvere e sabbia. 

Un grande fortuna è stata quella di trovare un’ospitalità molto attenta al cibo, tutta la selvaggina cacciata è stata portata al campo e sapientemente cucinata da Lize, una ragazza del posto di soli vent’anni. La sera stessa abbiamo potuto assaggiare la carne rossa delle grouse ed il giorno seguente paragonarla a quella bianca dei francolini. Ciò che non abbiamo consumato è stato distribuito alle popolazioni del posto per prevenire le azioni di bracconaggio, qui più che mai mosso dalla fame. I racconti in merito sono tanti e altrettante sono le prove che questa pratica rimane ancora una delle forme più ancestrali di caccia esistenti sul pianeta. Sul muro d’ingresso della fattoria di Klein Barmen un espositore raccoglie le lance dei bracconieri raccolte nella riserva nell’ultimo anno. Sono una decina ed a guardarle bene raccontano storie di povertà, quelle storie che uno ha sempre immaginato lontane e passate ma che qui senti vicine più che mai ed ancora tremendamente odierne. Non essendo territori di Big Five, le uniche specie prese di mira sono le gazzelle che vengono rincorse da cani e cacciatori con lance rudimentali fino ad essere colpite. Per assicurare l’arrivo della cacciagione, le prede vengono caricate a dorso di asini capaci di raggiungere il villaggio in modo autonomo su un sentiero diverso da quello dei bracconieri, ai quali in caso di cattura non può essere sottratta la carne.

Questa terra ha deciso di darci un benvenuto emozionante e ci ha tenuto a utilizzare la stessa cordiale riverenza anche per salutarci. Nel mezzo ha dato assaggi di cacciate con paesaggi e difficoltà diverse.

I primi due giorni nel bush hanno regalato un Impala a Giulia e un Waterbuck ad Andrea; la caccia nel bush, così chiamata una zona ricca di cespugli con scarsa visibilità, è fatta di piccole attenzioni che ne possono determinare la riuscita o il fallimento. Il vento nelle aree pianeggianti è in continuo cambiamento, va controllato perennemente; lo scricchiolio degli arbusti secchi che strisciano sulla ghetta del pantalone tradisce spesso il silenzio dell’avvicinamento; la visibilità è alquanto limitata dalla vegetazione; ogni suono e vibrazione del suolo possono essere segnali di presenza. Anche gli animali di grossa taglia sembrano sparire inghiottiti da quegli ammassi di spine. 

E’ incredibile come ogni cosa qui sia perennemente sulla difensiva: le piante che hanno sviluppato aculei robustissimi e gli animali che oltre a pellami spessi hanno istinti estremamente diffidenti. Ogni connotato è sinonimo di adattamento, al caldo, alla predazione. Una vera e propria lotta alla sopravvivenza. 

Ne abbiamo avuto ulteriore dimostrazione al quarto giorno di caccia quando, dopo il ferimento di un Blue Wildebeest, anche soprannominato il bufalo dei poveri, sono arrivati in nostro soccorso due ragazzi del posto. Partiamo dal presupposto che il ferimento è avvenuto intorno alle 8 del mattino e che il ritrovamento, dopo una seconda fucilata, è arrivato solo intorno alle 13 e che le temperature erano passate da un minimo di 3 gradi la mattina ad un massimo di 32 del primo pomeriggio, per dire che la situazione era piuttosto delicata. Il nostro team, sei persone in tutto, aveva battuto l’area alla ricerca di sangue e tracce con scarsissimi risultati ma, forte del fatto di possedere la registrazione del tiro in camera, era abbastanza certo dell’impatto della palla. L’arrivo dei due tracker ha decisamente svoltato le sorti delle nostre ricerche nel giro di qualche minuto: sono bastate due unghiate sul terreno più profonde delle altre centinaia per dedurre la direzione dell’allontanamento. Quattro occhi attenti, conseguenza di un allenamento costante, hanno fruttato più di dodici pupille inesperte. Ricordo bene quando mi mostrarono un rametto di un cespuglio spezzato seguito da due goccioline di sangue grandi quanto la capocchia di uno spillo: aghi in un pagliaio. Rimanemmo su quelle tracce altre due ore durante le quali persi ogni liquido che avevo in corpo: sentivo le goccioline di sudore scendermi dal turbante che avevo improvvisato per proteggermi la testa e le gambe sempre più deboli; il calore che saliva dal terreno costringeva a tenere la testa alta per cercare verso il cielo aria meno torbida da respirare. Nonostante i segni di cedimento non mi sentii di interrompere la ricerca del bandolo di quella matassa che i due stavano abilmente srotolando. Non vidi mai sui loro visi segni di stanchezza e affaticamento, vestivano scarpe con suola liscia e caviglia bassa, pantaloni e camicie a manica lunga, ma del caldo non si curavano. Là dove noi avevamo trovato fatica e smarrimento loro avevano messo la loro casa. Si fermarono soltanto quando ebbero finito il lavoro: erano le 13.30, la terra trasudava polvere e lo gnu era stato issato nel cassone del camioncino ma i loro sorrisi non avevano ancora accennato a distendersi. 

Ritrovai gli stessi occhi sereni sulla strada verso nord-est, sul viso di una giovane donna Himba che sembrava assomigliarmi. Chiesi di fermare la macchina.

Era seduta a bordo strada con due bambini piccoli e altre donne anziane; il corpo scuro ricoperto di terra rossa come argilla per difendersi dal sole e dagli insetti faceva risaltare i denti lucidi e la cornea bianca degli occhi. Le chiesi il nome, mi disse che quel bambino era suo. Non saprò mai il perché ma quell’incontro fu un déjà-vu di malinconica nostalgia. Chissà chi era e quale fosse la sua storia. Si avvicinò, ci scattarono una foto e la salutai. Mi rimase addosso l’odore di quell’argilla mista al sudore. Se ora dovessi disegnare quel profumo gli darei il suo volto. Tutta la serenità che spesso mi era mancata la ritrovai sul ciglio della strada, in quei due occhi vestiti di niente. 

Da lì percorremmo tutta la costa est, pescammo gli squali sulla spiaggia di Swakopmund e riprendemmo il viaggio verso il deserto del Namib. Sulla duna più alta del mondo assaporammo una delle albe più fredde e spettacolari di sempre, sospesi su una torre di granelli di sabbia in cui sprofondare e riemergere ci ricordò come tornare bambini. 

La promessa di stupore che l’Africa ci fece quella prima sera all’aspetto delle sand-grouse divenne il faro di tutto il nostro andare: scorgemmo bellezza in ogni suo scorcio. 

E così come tutto il viaggio, anche il suo arrivederci fu potente e loquace.

Giulia arrivò qui con un bagaglio di convinzioni ed aspettative che si era attentamente costruita ma ripartì con la certezza che solo gli stupidi non cambiano mai idea: era atterrata con la sicurezza di una lista di classici Disney  che non sarebbe stata in grado di prelevare ma decollò con l’immagine della sua mano tremante poggiata su un manto zebrato. Portò via con sé il ricordo di una delle cacciate che ha definito “tra più belle della sua vita”, quella ad una zebra di montagna. Nessuno ci avrebbe mai creduto ascoltandola nelle sue prime interviste, io per prima: raccontava della sua passione per i cavalli e dell’incredibile somiglianza con le zebre, del ricordo del mitico Martin di Madagascar, della straordinaria bellezza di questo animale per lei così simbolico. 

Ma l’Africa è vera, mostra le cose per quelle che sono: la vita di ogni animale è importante e preziosa allo stesso modo, il loro essere selvatici e liberi ne accomuna le sorti agli occhi di un cacciatore. L’astuzia di quegli incredibili animali, assaporata in quei nove giorni di caccia, fomentò la sua voglia di cacciarli. Così quell’ultima mattina, a 50 metri di distanza, le sue mani tremolanti si ritrovarono sul grilletto. Non ebbe più esitazioni e sparò.  L’esplosione di emozioni contrastanti che la travolsero poco dopo quando i suoi occhi si coprirono di lacrime vorrei che fosse lei a descriverla; non ho il diritto né la facoltà di farlo io. In quel momento mi limitai a riprenderle, cercando di non inquinare con occhi indiscreti quel suo momento così intimo.

Fu per tutti tempo di riflessione. Lo sarà anche per voi, se lo vorrete. 

A me quella terra parlò di vita vera, di favole che non sempre hanno un lieto fine ma non per questo devono essere taciute.

Andrea accarezzò per l’ultima volta quel manto e da quell’intreccio di strisce scaturì polvere e profumo. Un odore secco di terra e arbusti, gli stessi che hanno accompagnato quella vita inebriandone la sua carne.

La stessa fragranza, inconfondibile per me, di un continente che è stato la culla dell’umanità e che continua a custodirne severamente le regole della sua sopravvivenza. 

Per me si chiama profumo d'Africa;

e se un giorno riprenderò a sentirlo è perché sarò tornata. 


… e adesso GUARDA ANCHE IL VIDEO!


Marta Chiattone

Classe 1995, nata e cresciuta a Moncalieri, ai piedi dell’arco alpino piemontese. Conseguita la laurea magistrale in Amministrazione Finanza e Controllo ma consapevole della serenità che la montagna è in grado di trasmetterle, abbandona l’ambito economico per dedicarsi full time al settore dell’outdoor. Muove i primi passi come content creator per il compagno, e poi marito, Andrea Cavaglià, iniziando fin da subito a seguirlo nel mondo. L’attrazione verso i particolari e l’entusiasmo per le storie di vita quotidiana segnano il suo percorso da narratrice: la semplicità dei sentimenti e le sfaccettature nascoste diventano la cornice perfetta per arricchire video e racconti di un mondo venatorio per lei a volte troppo sterile di emozioni.

“Siamo avventura, impeto, sentimento ed eleganza “.

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