UNA BELLA SORPRESA


Anche quest’anno ottobre ci saluta platealmente con un’alba rosata.

È sorprendente scoprire come ogni mese, fin dal primo giorno, porti con sé un cambiamento così nascosto ma così evidente; l’alba più bella è sempre quella invernale, quella capace di stupirti con una sfumatura di rosa che non pensavi ancora esistesse: se settembre inebria con un nuovo profumo dell’aria, novembre è sicuramente il preludio di un stagione di cieli infuocati. 

Mi è sempre piaciuto pensare che il vento fosse la voce delle montagne, raccoglie tutto quello che hanno da dire e te lo presenta all’orecchio: che tu voglia o no sarai costretto ad ascoltarlo per il resto della giornata, travolge i tuoi pensieri e li annienta. Al pari di un trasformista, la sua ampiezza si esprime tra un sibilo stridulo di violino ed il rimbombo grave di contrabbasso.

Se la vista e l’udito stamattina hanno avuto la meglio, non sembra essere altrettanto per il resto del corpo. La notte ha sbiancato le cime lasciando uno strato di ghiaccio adagiato sull’erba; la prima aria fredda dell’anno è sempre più gelida di ogni altra giornata sotto zero, la pelle e le labbra ancora abituate al tepore del sole si spaccano facilmente facendo rimpiangere di non avere nello zaino un tubetto di burro cacao.


Stamattina siamo solo noi, le striature del rosa e il vento che racconta storie.

Accade raramente di essere soltanto in due, la sua famiglia ha sempre concepito la caccia come un momento di condivisione, motivo per cui Andrea è propenso a portarsi sempre qualche amico al seguito.

Siamo partiti a buio con passo veloce e con l’intenzione di raggiungere l’area di caccia con la prima luce utile. Cacciamo in un comprensorio alpino pubblico, di conseguenza la probabilità di incontrare altri cacciatori sullo stesso sentiero è sempre alta. Le notizie del Tg di ieri sera non sono delle migliori, parlano di ripristinare la zona rossa già da domani, e ciò comporterà la chiusura della caccia. In poche parole per Andrea, così come per molti altri cacciatori piemontesi, questo potrebbe essere l’ultimo giorno utile per prelevare il cervo. 

L’assegnazione quest’anno è stata tanto generosa quanto impegnativa: il maschio adulto. 

So che è tremendamente attratto dalle situazioni complesse e mi sto convincendo che quando si ferma non sia tanto per riposarsi quanto per pianificare: anche questa volta troverà il modo per portare a casa l’obiettivo.

È stratega e lo è sempre stato; agisce raramente d’istinto.

Quando caccia alla piuma con Davide, suo fratello, lo si nota ancora di più: uno la mente e l’altro il braccio. Spesso e volentieri Andrea sceglie dove sganciare i cani ma alla fine è quasi sempre Davide che colpisce portando a casa il risultato; a mio parere alla vista del selvatico rimane talmente sorpreso dalla riuscita delle sue strategie che finisce per non avere la freddezza e la rapidità del fratello.


A settembre, nei pochi giorni liberi dal lavoro, siamo usciti più volte per cercare le arene. Ripenso in particolare all’episodio di un sabato mattina in cui alle 5.30 ha deciso di buttarmi giù dal letto, avvolgermi in qualche strato di giacconi e caricarmi sul Navara, rigorosamente in pigiama con un thermos caldo di tè da bere per colazione. Della strada che abbiamo percorso in macchina ricordo ben poco, ma quando le luci si sono accese eravamo circondati da duemila metri di montagne, nel bel mezzo di un’arena di otto cervi maschi. Vorrei poter spiegare come mi sono sentita, ma è difficile.

Forse, in fondo, dovrei ringraziarlo per questo. 

Raramente cerca il trofeo più bello, se non nella stagione della raccolta palchi. È sempre stato convinto che prelevare il più debole o il più vecchio fosse davvero l’unico motivo di vanto.

Quest’anno la neve ha tardato ad arrivare e quindi anche i cervi hanno posticipato il loro arrivo nei nostri territori di caccia. Dalle binocolate degli scorsi giorni abbiamo intravisto solo qualche esemplare molto giovane. 

Dopo qualche sosta sul sentiero, a me indispensabile per riprendere fiato, arriviamo sull’altopiano sopra al bosco, un punto strategico di osservazione; lì ci siamo resi conto che l’impresa era effettivamente più difficile del previsto: non solo non c’era traccia dei cervi ma un gruppo di tre cacciatori ci era anche davanti. La competizione che si crea tra cacciatori è un concetto che ho sempre faticato ad accettare ma mi rendo conto che in alcune situazioni diventi una variabile piuttosto critica per la riuscita del prelievo.

In quel momento tra le domande che ci siamo rivolti a vicenda, due hanno avuto la meglio: i cervi non ci sono mai stati oppure erano lì e sentendo rumori si sono spostati? Senza nessuna risposta pronta e con pochissimo tempo da perdere, decidiamo che la soluzione migliore sia quella di imboccare la direzione opposta così da essere i primi ad arrivare sul terreno di caccia e poter monitorare con calma la situazione.

Le corse contro il tempo e i cambi di programma sono sempre stati i preamboli delle più belle storie di avventura: speriamo lo siano anche questa volta. 

Sono ormai le otto e mezza quando, dopo 500 metri di dislivello, raggiungiamo la strada sterrata che percorre in vetta l’intera vallata; purtroppo o per fortuna, nel periodo invernale è chiusa. Da quassù possiamo costeggiare tutto il fianco della montagna binocolando verso il basso. Il vento è più forte che mai, non ha barriere di rocce o alberi capaci di mitigarlo, a tratti diventa difficile anche rimanere in piedi. La strada è molto esposta di conseguenza l’unica strategia possibile è camminare il più possibile sulla sponda interna, sporgendosi di tanto in tanto per controllare la zona sottostante.

Son bastati pochi passi ad Andrea per scorgere le prime sagome: a detta sua stava osservando con il binocolo un boschetto quando un movimento velocissimo ha attirato la sua attenzione: quello che a primo impatto poteva sembrare un ramo (e che io sicuramente avrei scambiato per un ramo) in realtà era una corona, ben mimetizzata tra le fronde dei larici.

Mi fa sorridere come a lui venga tutto così spontaneo e a me così complicato. Viaggiamo su due binari separati e per di più il mio treno ha anche qualche minuto di ritardo: tra l’attimo in cui lui avvista qualcosa e il momento in cui riesce (con una serie di escamotage che si è studiato negli anni) a farmelo individuare nella migliore delle ipotesi passano 2 minuti. Alla fine, demolita psicologicamente da indicazioni del tipo “È tra i due pini verdi”, “Su quella roccia a triangolo”, “Dietro al ramo secco di quell’albero al centro del bosco“, alle quali per risollevarmi l’autostima aggiunge un bel “Come fai a non vederlo, lo vedo a occhio nudo! ”, con il nervosismo di entrambi palpabile, gli occhi che si incrociano e la nausea che mi avvolge abbandono il binocolo affidandomi disperatamente al lungo. 

Mentre io traffico con il cavalletto, che oggi sembra voler fare la sua parte, Andrea coricandosi cerca un posizione ferma per la Horizon; purtroppo l’unica soluzione per creare un appoggio stabile è quella di sfruttare delle pietre raccolte a terra. Il suolo è veramente umido, i raggi di sole che di tanto in tanto filtrano attraverso i nuvoloni riescono comunque a sciogliere il sottile strato di neve, creando delle pozze di melma sulla strada terrosa. Non è di certo una sensazione piacevole mettersi a pancia molle su questo terreno ma penso che in questo momento l’ultimo suo pensiero sia il freddo e il bagnato: a me il fatto preoccupa un po’ di più ma cercherò di non darlo troppo a vedere.

Il cervo è a 300 metri ma è talmente nascosto che diventa davvero difficile capire di che esemplare si tratti. A questo punto non sono più la sola a voler riporre tutta la fiducia nella specula ma questa volta nemmeno la tecnologia accorre in nostro aiuto: nonostante si possa intravedere sullo sfondo del bosco una nuova sagoma con un palco ancora più bello, di entrambi non riusciamo a stimarne l’età.

Procediamo. 

Anche se è un insulto a quelle giornate trascorse senza vedere niente. 

Anche se non è detto che ne troviamo un altro.

Anche se c’è altra gente in giro alla ricerca del nostro stesso cervo. 

Anche se domani la caccia potrebbe essere sospesa. 

Procediamo, perchè senza quell'incognita racchiusa in un “Anche se” non saremmo nemmeno partiti. 

Se non c’è brivido, se non c’è una scarica di adrenalina che ti faccia pensare “Questo è il mio cervo” allora che senso ha cacciare? 

Andrea non ha mai avuto la pazienza di fare una caccia da appostamento ma stamattina l’aria gelida che continua a soffiare ci spinge ad entrare in un nascondiglio scavato nella roccia: qui siamo abbastanza riparati dal vento e allo stesso tempo riusciamo ad avere una bella visuale sull’area sottostante. Una sorta di altana improvvisata. Abbiamo ormai raggiunto i 2500 metri di altezza e da qui riusciamo a controllare bene il bosco nel quale avevamo visto i due maschi. È passata ormai un’ora quando il sole ha finalmente deciso di squarciare il tappeto di nuvole: il suo calore è assolutamente gradito. 

Le sorprese arrivano quando meno te lo aspetti, così come le opportunità si palesano quando hai smesso di cercarle. 

Anche questa volta mi sono portata dietro la telecamera per cercare di immortalare qualche bella scena e nel momento in cui decido di registrare l’ennesima intervista si scatena l’imprevisto: vedo Andrea interrompere la frase a metà sbarrando gli occhi. Con i movimenti cauti che mi son stati insegnati in questi anni, mi affretto a sporgermi per capire cosa stesse succedendo.

Una cerva, seguita da due caprioli, stava attraversando in corsa la radura, 200 metri sotto di noi. 

Proprio lì, in mezzo a tutta quella frenesia, troviamo cosa stavamo cercando. 

 Quel brivido, quel batticuore, quel sussulto era lì. 

Finalmente era arrivato. 

Ben nascosto in quei due paia di palchi che ci camminavano incontro.

Ora anche la carabina andava tranquillizzata.

Andrea si butta di peso sul calcio cercando di farlo stare fermo con il corpo ma in una frazione di secondo il passo dei due maschi inizia a velocizzarsi fino a farli scomparire tra gli alberi.

Iniziamo a correre, io dietro di lui, provando ad intercettarne la traiettoria. Di tanto in tanto qualche sosta per guardarci intorno e riprendere fiato, ma dei due cervi nessuna traccia. 

Ci fermiamo definitivamente, convinti che gli animali abbiano attraversato tutto il bosco, rimanendo nascosti fino sulla cima della montagna per poi svallare più alti di noi. 

Ma i cervi non sono dove pensavamo che fossero.

Ed è proprio lì il bello, nell’imprevedibile, nel sorprendente, nell’insperato, in un cambio di programma che ti porta ad essere nel posto giusto, al momento giusto.

Sono soltanto 150 metri sotto di noi e ci stanno guardando, ma quando noi ci accorgiamo di loro è ormai troppo tardi. Riprendono la loro corsa più veloci di prima e si dirigono verso il canale, pronti ad attraversarlo sul versante opposto al nostro.

Bisognerebbe perdere quella presunzione di osservare senza esser visti, di conoscere senza esser riconosciuti, perché anche quando tu pensi di sapere dove siano, loro in realtà sanno già dove sei tu. 

L’operazione più difficile in questi momenti è avere il sangue freddo per trovare una posizione stabile alla carabina. Fortunatamente pochi giorni prima ha montato sulla sua Franchi il bipede: diversamente sarebbe stato impossibile tentare il colpo. Gli animali in corsa sono ormai a 350 metri sul versante in faccia a noi quando Andrea decide di sparare. Non è solito provare colpi così azzardati, non è un cecchino e non si reputa tale, conosce i suoi limiti e cerca sempre di non oltrepassarli specialmente quando c’è di mezzo la sofferenza di un animale.

Ma in quel momento il brivido era lì, su quell’indice tremolante appoggiato al grilletto.

Un respiro profondo e poi il frastuono. 

I cervi dopo il colpo non si vedono più, presupponiamo che siano entrati nei larici verso i quali si stavano dirigendo ma non se siamo per niente sicuri.

Volatilizzati. 

I dubbi sono molti e le certezza molto poche. 

Ancora qualche attimo di interviste a caldo e poi, più demoralizzata che mai per non essere riuscita a filmare come avrei dovuto l’abbattimento, decido di ritirare la telecamera per aiutarlo ad individuare gli animali. 

Trascorriamo l’ora successiva a pensare e binocolare, in silenzio. 

Io non osavo chiedere perché ero certa che lui non volesse rispondere. 

In tante situazioni il silenzio è ciò che serve. 

Decidiamo quindi di ritornare a prendere gli zaini che avevamo abbandonato per poi dirigerci verso l’anschütz. 

Lo lascio davanti, sempre in silenzio; continua a camminare guardandosi intorno dubbioso. Forse è la prima volta che è così perplesso, solitamente è abbastanza sicuro della riuscita o del fallimento del suo tiro: ci mettiamo sempre nelle condizioni di impostare il Leica Apo-Televid e lo slow-motion del cellulare per verificare l’impatto della palla. Negli anni abbiamo scoperto che abbattere o ferire un animale con una palla di rimbalzo non è assolutamente impossibile e solo con la moviola a posteriori si può ricostruire la vera dinamica dell’abbattimento. Divertente e soprattutto molto utile per cercare di ridurre il numero di animali feriti ma non recuperati. Questa volta è venuto a mancare anche questo aiuto e nemmeno io sono stata abbastanza veloce per filmare e capire cosa effettivamente fosse successo.

Tutti pensieri e sensi di colpa inutili, i miei come i suoi. 

In realtà l’animale è stato colpito ed è a meno di 30 metri, ma noi non lo sappiamo ancora. 

È sorprendente accorgersi di quanto poco tempo impieghi un dubbio a sciogliersi, gli occhi a spalancarsi e una smorfia a diventare sorriso.  

I pensieri accumulati fino a quel momento si verbalizzano in un’esclamazione tanto concisa quanto esplosiva: “ Non ci credo!”.

Il cervo era morto, accovacciato alla base di un larice come se dormisse, con i palchi sorretti dalle fronde più basse. 

Quando l’adrenalina scompare è la tenerezza che pervade gli sguardi; quel misto di tristezza e malinconia son certa lo accompagneranno dopo ogni suo abbattimento, ed è giusto che sia così. 

La mano destra sul cappello abbassato per nascondere gli occhi lucidi e la sinistra sul manto ancora tiepido di quel coronato di dodici anni sono il fotogramma che mi porterò dietro nel tempo insieme all’abbraccio di un fratello orgoglioso corso subito in suo aiuto. 


… e adesso GUARDA ANCHE IL VIDEO! 


Marta Chiattone

Classe 1995, nata e cresciuta a Moncalieri, ai piedi dell’arco alpino piemontese. Conseguita la laurea magistrale in Amministrazione Finanza e Controllo ma consapevole della serenità che la montagna è in grado di trasmetterle, abbandona l’ambito economico per dedicarsi full time al settore dell’outdoor. Muove i primi passi come content creator per il compagno, e poi marito, Andrea Cavaglià, iniziando fin da subito a seguirlo nel mondo. L’attrazione verso i particolari e l’entusiasmo per le storie di vita quotidiana segnano il suo percorso da narratrice: la semplicità dei sentimenti e le sfaccettature nascoste diventano la cornice perfetta per arricchire video e racconti di un mondo venatorio per lei a volte troppo sterile di emozioni.

“Siamo avventura, impeto, sentimento ed eleganza “.

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