COME DA TRADIZIONE
Sinonimo di agilità e destrezza, da sempre affascina cacciatori ed amanti della montagna. Folto di pelo e uncinato di corna, per qualcuno un sogno nel cassetto, per altri una tradizione di famiglia; per tutti un simbolo delle Alpi.
Inutile dire che, per chi ha fatto della caccia di montagna uno stile di vita, questa specie rappresenti qualcosa di più che una “semplice” preda.
Fatica, allenamento e strategia, rimangono i requisiti imprescindibili per la riuscita dell’avvicinamento: la sua ricerca è prima di tutto una prova fisica che, allo stesso tempo, permette di assaporare la montagna per quello che è: un’emozionante sfida.
Dall’alba al tramonto, gustandosi l’aria fresca di una mattinata autunnale per poi finire velocemente in una tormenta invernale. Tra sentieri scoscesi e pietraie vacillanti.
Ai camosci piace vivere in alto e tu là devi arrivare.
La storia di Andrea inizia proprio qui, su una prateria di montagna arsa dal sole.
Era una calda giornata di metà settembre, per temperatura simile a quelle estive, quando il desiderio di un bambino di dieci anni si avverò.
Fin da piccolo aveva seguito il papà sulle montagne di casa in compagnia dei loro Setter, si può dire che sia cresciuto in mezzo a loro; Meo l’ha sempre portato con lui, ma c’è un’altra richiesta a cui dovrà cedere non appena Andrea riuscirà fisicamente a sostenere l’impresa: la caccia al camoscio. Sono ormai giorni che le suppliche di seguirlo sulle orme dei camosci sono diventate insistenti e, vista la bella stagione che non sembra dare segni di cedimento, potrebbe essere davvero arrivato il momento giusto per portarlo con lui. Ha voluto aspettare che fosse Andrea stesso a chiederlo, senza forzature o imposizioni, come è giusto che sia. Lo aveva avvertito che non sarebbe stato semplice, sicuramente non lo illuse della riuscita, anzi, era abbastanza certo che con le temperature così alte i camosci non solo avessero desistito all’idea di abbassarsi verso valle ma che si fossero rifugiati in fasce più alte, su ghiaioni decisamente inaccessibili ad un bambino di dieci anni.
In ogni caso si convinse che quello poteva esser il sabato giusto per partire.
Finalmente in due.
La prima volta non si scorda mai, dicono, e non è un caso se questa è una delle storie che racconta più spesso.
I ricordi sono regali preziosi e quel giorno suo papà gliene stava regalando uno.
Di quella giornata ne sottolinea sempre l’emozione, non di certo la fatica che fece per raggiungere quel pianoro, e Meo ci ha sempre assicurato che ne fece davvero tanta. Ma, come in tutte le storie in cui l’obiettivo è talmente gratificante da oscurare la strada percorsa per raggiungerlo, è giusto omettere i particolari più fastidiosi.
Se un giorno vi capiterà di trovarvi davanti a un braciere acceso o ad una tavola imbandita in sua compagnia state certi che le sue parole saranno più o meno queste:
“ Verso mezzogiorno ci eravamo sdraiati su un prato a riposare ma essendo troppo agitato per dormire, mio papà mi lasciò come vedetta, dicendomi di svegliarlo se avessi visto qualcosa. Per un’ora non tolsi mai gli occhi dal binocolo finché da dietro una delle tre rocce che continuavo imperterrito a scrutare uscì il nostro yearling.
Credo di aver desiderato così tanto quel camoscio che qualcuno me l’abbia messo lì apposta.
Svegliai mio papà che impiegò un po’ a realizzare: nel bel mezzo di un prato bruciato dal sole, a mezzogiorno, con 20 gradi, c’era davvero uno yearling. Solo. A 150 metri da noi. Me lo raccontassero ora non ci crederei nemmeno io, eppure andò proprio così. Papà imbracciò il suo basculante e il camoscio rotolò.”
Il discorso poi continuerebbe sicuramente con una malinconica considerazione proprio su quella carabina.
“Mio papà ha sempre usato un basculante con ottica fissa a sei ingrandimenti. Ricordo bene la croce dell’ottica con le tacchette. Mi diceva sempre che se il camoscio era lungo quanto lo spazio centrale della croce più o meno si trovava a 100 metri, a 200 metri se era lungo solo la metà e se era più piccolo allora bisognava lasciarlo stare perchè troppo lontano. Chi ha vissuto quel periodo son certo che capirà”.
E’ consapevole del grande passo in avanti fatto dalla tecnologia a favore della caccia, ne apprezza le facilitazioni e ne condanna le esasperazioni. Ancora fresco di licenza ha iniziato a cacciare con torretta balistica e telemetro: difficilmente tornerebbe a utilizzare l’ottica fissa di suo papà ma in ogni caso è rapito dal fascino della semplicità tecnologica dell’epoca, quando il saper cacciare era davvero un’abilità indispensabile. La montagna, così come tutti gli ambienti estremi, diventa uno scenario adatto per evidenziare pregi e difetti di un “terremoto” tecnologico che continua a bombardarci di novità. Le considerazioni a riguardo sarebbero molte e tutte interessanti, di tanto in tanto ha avuto modo di confrontarsi con esperti di settore e anziani cacciatori giungendo alla solita conclusione che, come per ogni rivoluzione che si reputi tale, sarebbe bello poterne isolare i soli aspetti positivi. Laddove i nostalgici evidenziano un incremento esponenziale delle facilitazioni del cacciatore rispetto all’animale, le nuove leve intravedono una diminuzione del rischio di ferimento e non ritrovo, e a chi si trova a cavallo di due generazioni e ha avuto la fortuna di assaporare entrambe le realtà non resta che accollarsi addosso l’ambigua qualifica di “nostalgico avanguardista”. Andrea lo è. Decisamente.
Se da una parte difficilmente ipotizzerebbe distanza di tiro e classe dell’ animale sena lungo e telemetro, dall’altra parte, pur disponendo di torretta e click, cerca sempre di guadagnare metri per arrivare il più vicino possibile al selvatico. Un video a rallentatore del tiro è oramai da anni il suo ritrovamento tecnologico più utile, la garanzia che gli serve per tranquillizzarlo sull’impatto della palla. Tralasciando un discorso troppo soggettivo ed estremamente complesso persistono comunque elementi, valori e condizioni che finora hanno resistito al vento del cambiamento rimanendo capaci di accomunare generazioni e generazioni di cacciatori di camosci: le montagne, la loro imponenza e la sfida che lanciano. L’ allenamento e l’impegno il più delle volte sono requisiti imprescindibili. E’ per questo che ad Andrea piace: penso che la fatica per molti cacciatori di montagna sia presupposto della soddisfazione, altrimenti caccerebbero in zone più facili.
Nelle valli piemontesi la caccia al camoscio è aperta da metà settembre a metà dicembre: la stagione a cavallo tra autunno e inverno ti abitua ad uscire sia con il sole ancora caldo del primo autunno che con le bufere dell’inverno.
Anche gli scorci in cui cercarli non sono sempre gli stessi: con l’arrivo della neve i branchi tendono a spostarsi a valle rendendo più facile l’avvicinamento, anche se d’altra parte il recupero sul terreno ghiacciato diventa più pericoloso. E lui ne sa qualcosa.
Ha imparato con il tempo che prima ancora dello sparo bisogna valutare le possibili condizioni del recupero e, se troppo difficili, a saper desistere.
Poche regole ma fondamentali, questa è una di quelle.
L’avvicinamento è il momento più emozionante: 200 metri è l’obiettivo ideale. Il tiro non è mai così fermo: ci si sdraia a terra usando lo zaino come appoggio, tante volte con il cuore ancora accelerato tra sforzo fisico ed emozione che, si sa, fa sempre la sua parte.
La caccia è strategia, una ricerca che inizia nei mesi precedenti per arrivare alla scelta del posto più adatto la sera prima della partenza.
Che sia un camoscio maschio, una femmina o uno yearling, una medaglia o un sanitario, quello che si porta a casa a fine giornata non è mai stato il trofeo ma indubbiamente il ricordo di un’esperienza, per Andrea ancora più ricca se condivisa.
Questo valore negli anni è sedimentato.
E’ diventato tradizione.
Oggi è regola.
Da quel lontano Settembre del 2004 in cui per la prima volta partirono in due, Andrea non è mai più partito da solo. Non per paura o per nostalgia ma per la bellezza della condivisione.
Suo papà ha perso un po’ alla volta la passione per l’ungulato, dando sempre più spazio ai suoi Setter a cui dedica tutto il suo tempo libero. Davide è cresciuto ed è diventato il suo compagno di caccia preferito. Attorno a loro amici e fidanzate si sono susseguite negli anni: di ciascuno custodiscono ricordi ed aneddoti; qualcuno è stato travolto da questo loro entusiasmo a tal punto da prendere la licenza.
Ogni anno l’apertura al camoscio è un appuntamento per tutti.
Lo è anche quest’anno.
Due tende, cinque amici e l’avventura davanti.
I preparativi per la tendata son sempre degli di nota. Il gruppo Whatsapp nelle ore precedenti la partenza è un’arena accesa di dibattito tra i partecipanti: nella parte più razionale del gruppo Andrea, che preferisce soluzioni semplici ma ben studiate, se vogliamo più focalizzate all’obiettivo. Dalla parte opposta Davide: festaiolo, più sbrigativo ed incline alle soluzioni divertenti. Tra i loro estremi un ventaglio di personalità diverse, ciascuna indispensabile per la buona riuscita del weekend. Degno di nota Charlie, incline come ideologia a Davide, altalenante tra la sua indole festaiola e l’eleganza del torinese in carriera. Ottimo cacciatore nelle giornate di sole, raggiunge il gruppo all’ora di cena per poi ripartire la mattina seguente, scoraggiato dal diluvio della notte. A seguire Tomaso, detto Tumin, baffo arricciato “alla Vittorio Emanuele”, commerciante d’arte estremamente colto e decisamente tradizionalista: l’unico del gruppo a condannare l’abbigliamento mimetico, rimanendo fedele all’accoppiata cuoio-loden. In perenne scontro con il Bokkets, alpinista dal vestiario tecnico e dalla buona parlantina, innovativo e aggiornatissimo sulle ultime tendenze di mimetismo. Una macedonia di personaggi che non si sa bene come si siano trovati ma che insieme funzionano decisamente bene. Sono abbastanza certa che ogni cacciatore abbia un gruppo di compagni così.
Quest’anno, per la prima volta, ha decisamente vinto la parte pigra della comitiva: il campo base sarà a pochi metri dal parcheggio delle macchine, questo permette di disporre di tutto quello che in una situazione di “zaino in spalla” non sarebbe stato possibile portare. Chi ha portato acciughe al verde della mamma, chi torte della fidanzata, chi materassi imbottiti per dormire comodi, chi padelle per cucinare: in ogni caso l’importante è abbondare.
Andrea e Tumin sono stati mandati sul posto già nel tardo pomeriggio del venerdì per montare le tende e l’accampamento e binocolare i primi animali: le fascette a disposizione sono quattro, due femmine, un maschio e uno yearling. Da una prima osservazione della sera la situazione sembra abbastanza buona, molti camosci sono usciti nei prati per mangiare al calar del sole, bei maschi e fortunatamente anche qualche yearling. Le premesse sembrano esserci tutte. Sarà richiesta qualche ora di cammino per raggiungerli ma quello non è mai stato un problema. Per cena rigorosamente fagioli, cipolle e senape.
Tra un bicchiere di vino e qualche storia davanti al fuoco la notte scende velocemente e con lei le nuvole: niente cielo stellato a coronare quella notte briosa.
Il sonno porta via risate e leggerezza, ognuno di loro sa che alla caccia serve concentrazione e dedizione; non mancheranno nell’impegno.
Al risveglio il ticchettio della pioggia sul soffitto della tenda è quasi sempre presagio di giornata difficile. Il braciere che fino a poche ore prima scoppiettava a suon di risate è solo più un ammasso di pietre e terra nera. E come lui gli animi, grigi e perplessi.
Sotto la pioggia è tutto decisamente più complesso. Gli espedienti e le furberie che avresti dovuto mettere in atto la sera precedente anziché continuare a tracannare vino, in un attimo si palesano nella tua mente per la resa dei conti: il legno andava coperto, gli scarponi messi al caldo e la tenda sicuramente tesa meglio. Ma ormai sei lì e la giornata deve iniziare. Con le prime luci del giorno diventa evidente che la pioggerella di fine settembre è solo una piccola punta dell’iceberg di problemi che sta emergendo in superficie.
Sono da poco passate le otto quando la vallata si ritrova avvolta in un fitto manto di nebbia.
Dubbi, titubanze e scoraggiamento solcano i visi.
C’è bisogno di strategia.
Inutile rimanere un unico gruppo, inutile aspettare che la nebbia si alzi, inutile creare illusioni.
La montagna quella mattina andava affrontata, così come quella volta in cui aveva deciso di omettere i particolari più fastidiosi a favore di un obiettivo più gratificante.
E così, in un’umida mattina di fine settembre di quindici anni dopo, la caparbietà di un bambino cresciuto su quelle montagne stava guidando due gruppi di cacciatori sulle orme dei camosci. Ancora una volta.
Da una parte Davide e Bokkets alla ricerca di un maschio o di una femmina asciutta, dall’altra Andrea e Tumin con la fascetta di un binello o, eventualmente, di un’altra femmina asciutta.
Due sentieri differenti, ma un’unica speranza: che la nebbia si alzi.
Respiri affannati, impermeabili bagnati, la canna del fucile tappata con lo scotch e visibilità nulla.
Un passo dopo l’altro verso l’obiettivo, di tanto in tanto qualche sosta sotto i larici più fitti per ripararsi dalle raffiche di pioggia.
Difficile non scoraggiarsi.
In lontananza il canto di un forcello è motivo di distrazione.
Due ore di cammino e 600 metri di dislivello percorsi bastano ad Andrea per intravedere la cima del ghiaione svettare sopra la nebbia. Qualche minuto di intensa osservazione per poi immergersi dinuovo nelle nuvole. Tra due rocce il fischio di un camoscio. Un maschio.
Una pacca sulla spalla a Tumin e ancora su, su quel sentiero che sembrava senza fine.
Ogni passo un corrugamento in più sulla fronte, una smorfia più profonda sul viso.
Per Tomaso è il primo anno di licenza, la cacciata è per lui. La priorità della ricerca è il suo yearling, così come le accortezze di Andrea son tutte mirate a sollevargli l’umore. Imparerà con il tempo che la caccia è un continuo alternarsi di fallimenti, riuscite e ancora fallimenti, l’importante è crederci sempre e non mollare. Mai. Una metafora di vita, a volte.
Per chi caccia in compagnia ogni sentimento è frazionato, tranne la gioia, quella è quasi sempre amplificata. E ci fu sia gioia che ottimismo quando il telefono suonò. Era Davide: “Abbiamo preso un maschio. La nebbia si è aperta e lo avevamo a 200 metri, non si è accorto che eravamo lì, le nuvole ci hanno coperti.”
L’eco di quelle parole risuonò nella loro testa per il resto della giornata, una giornata fatta di continui alti e bassi. La certezza di avere i camosci molto vicini senza sapere dove siano realmente è una scarica di adrenalina da provare. La delusione nel vederli scappare al levarsi della nebbia anche.
A sera, distrutti moralmente prima ancora che fisicamente, il ritorno alla tenda fu piuttosto silenzioso.
La nebbia: per qualcuno alleata, per qualcun altro nemica.
Tomaso un mese dopo prese il suo primo yearling in una bellissima giornata di sole. Andrea condivise la ricerca della sua femmina con un altro caro amico.
Le esperienze vissute sulle montagne raddoppiano ogni anno, ed il repertorio di storie da raccontare attorno ad una tavolata di amici si arricchisce sempre di più.
E forse è proprio per questo che vale sempre la pena provare, per avere una storia in più da raccontare anche e soprattutto a chi, con te, su quelle montagne non c’era.