LEGAMI NON SCRITTI
Questa è una bella storia, una di quelle che pochi cacciatori possono raccontare.
Certo, il sogno di tanti. Per me l’esaltazione massima della caccia.
Una storia per ricordare quello che troppo spesso ci si dimentica: per essere cacciatori bisogna sapersi emozionare.
La storia che sto per raccontare è una storia di montagna: è sempre lì che gira e rigira ritrovo i valori per me importanti, nelle piccole borgate, tra la gente burbera dal cuore grande.
Matteo nasce qui, a 2000 metri, nella frazione più bella di Cesana: Champlais Seguin.
Una chiesetta, un’osteria, una manciata di baite sparse e la più bella vista sullo Chaberton che l’intera vallata possa offrire.
La sua vita è qui, lo è sempre stata e probabilmente lo sarà.
E questo non è un limite ma la sua più grande ricchezza: avere radici profonde.
Il suo lavoro, scandito dall'alternarsi delle stagioni, lo ha legato in modo indissolubile a questa valle e lui stesso, nelle nostre chiacchierate, ribadisce di non riuscire ad immaginarsi altrove. Qui conosce tutti e tutti lo conoscono: alto, spettinato e con un’abbronzatura perenne ad incorniciare gli occhi azzurri. La raffinatezza non è il suo forte, la sua parlantina è sempre vivace, per ogni persona che incontra ha una battuta pronta. Gli scarponi ai piedi e i Carrera per pantaloni sono da sempre il suo biglietto da visita.
Matteo è così: lo sanno i suoi amici, lo sanno le sue fidanzate, lo sa la sua famiglia. Prendere o lasciare.
E chi gli vuole bene non pretende che sia diverso da come è: un carattere ruvido custode di una storia rara.
L’amicizia tra Andrea e Matteo vanta già qualche anno. Entrambi classe ‘94, si sono conosciuti diciottenni al corso della selezione. Due caratteri diversi, due vite diverse unite dalla grande passione per la caccia.
E’ proprio nel loro primo anno di licenza che hanno girato “Fly on Chamois”, una cacciata al camoscio sulle montagne di casa in un fresco mattino di novembre. Un video scandito da ritmi lenti e da silenzi carichi di adrenalina; si può dire il primo vero lavoro da professionista di Andrea, quello che più ha segnato gli inizi della sua carriera.
La storia di oggi però non parla di camosci e nemmeno del fresco dell’autunno.
Siamo a Marzo, i primi raggi del mattino scaldano le praterie montane ormai maculate: le ultime chiazze di neve si stanno sciogliendo. L’inverno è alle sue battute finali e la natura lo sa. Il risveglio è lento e delicato, bisogna essere prudenti, un passo azzardato potrebbe essere compromettente a queste altezze.
I cervi sembrano essere i primi ad accorgersene, la stagione della perdita dei palchi inizia già a fine febbraio portando in queste valli un gran numero di cercatori.
Il fenomeno della caduta del palco è qualcosa di inspiegabilmente affascinante e seppur qualcuno negli anni abbia provato ad attribuirgli un senso, rimane ricoperto da un alone di mistero. In ogni caso, nessuna stagione sarebbe stata più perfetta di questa per fare avvenire tutto ciò a dimostrazione del fatto che in natura niente è scontato ma tutto è rigorosamente calcolato e studiato. E questo stupisce sempre.
Matteo è già alla guida, come ogni mattina; ancora assonnato ma già concentrato.
E’ il 13 Marzo del 2019, un mercoledì. Sono da poco passate le 8.30 e i raggi del sole che si riflettono sul vetro del camion intralciano la vista sulla corsia. Ma quei tornanti per lui non hanno segreti e di certo non è tra le sue intenzioni quella di rallentare. Di quella strada conosce tutto, è la sua quotidianità da anni: ne ha studiato ogni pendenza e ogni rientranza. Quella mattina, però, c’è un’ombra in più.
Un movimento veloce degli occhi lo portano proprio lì, sul lato opposto della carreggiata.
In una frazione di secondo l’enorme camion giallo sta già percorrendo la corsia di marcia opposta, pronto a fermarsi alla prima piazzola. Matteo scende e con il suo passo cadenzato si avvicina con fretta a quella sagoma che lo aveva rapito.
Sei punte, base massiccia con un accenno di doppio pugnale e quel profumo di resina che porterà sempre nel cuore: il suo primo palco.
Ma c’è qualcosa di più in quell’incontro, casuale e inaspettato.
In quella mattina di Marzo, con quel colpo d’occhio, su quella strada di montagna, due vite si sono intrecciate.
Da quel momento sono trascorsi quattro anni e sarete d'accordo con me alla fine di questo racconto nel pensare che in quella frazione di secondo qualcosa di speciale sia successo.
Le notizie da queste parti volano veloci di bocca in bocca, soprattutto tra i curiosi, e prima che uno possa immaginare giungono a orecchie lontane. E così è successo.
Un amico di Matteo, nel primo pomeriggio, venuto a sapere del ritrovamento, lo avvisa di aver visto rientrare in pineta un maschio adulto con un palco solo, proprio nella zona in cui lui aveva trovato il suo.
Matteo non è mai stato interessato alla raccolta dei palchi ma quello gli piace e la voglia di mettersi alla prova nel cercare anche il secondo lo incuriosisce. Così, individuate e seguite le poche impronte ancora visibili sulla neve, si ritrova ai margini della pineta. Da lì in poi più nessun riferimento, solo il buio intervallato da qualche fascio di luce.
Nella ricerca dei palchi le teorie sono tante e quasi tutte convergono nell’affermare che è tutto un gran bel gioco con la fortuna. Effettivamente quel cervo poteva aver imboccato mille strade diverse tra quei pini, poteva essere tornato indietro, viaggiato per dritto o a zigzag, addirittura poteva avere ancora il secondo palco in testa.
Ma le storie di quei due erano ormai intrecciate e il destino avrebbe trovato un modo per avvicinarle ancora un po’.
A dieci passi dal bordo del bosco, come se qualcuno le avesse appoggiate lì per lui, altre sei punte, una base massiccia con un accenno di doppio pugnale e quel profumo speciale di resina.
Coppia!
L’estate arriva e con lei i cervi vanno via, si rintanano nei versanti in ombra per poter sopportare la calura del giorno.
L’appuntamento con il bramito di settembre quest’anno non lo perderà: vuole provare a vederlo dal vivo e nel periodo degli amori l’impresa sembra un po’ più semplice. In quale arena cercarlo è difficile da dire ma con l’aiuto di qualche amico cacciatore potrebbe esserci qualche probabilità di scovarlo.
Passa Settembre, passa Ottobre e di lui nessuna traccia.
Finisce il 2019, arriva il 2020 e poi l’inverno profondo. E dopo l’inverno il Covid.
E’ il 13 marzo, Matteo è di nuovo sulla pala. Si è promesso di dedicarsi un po’ di tempo a fine giornata per fare due passi nel bosco. Il pensiero è costante. Gli piacerebbe almeno vederlo una volta e se è vero che anche i cervi tendono ad avere una loro routine, allora potrebbero incontrarsi lì, anche quest’anno. Verso sera, quando il sole sta ormai tramontando dietro le cime ancora innevate, arriva ai piedi del versante su cui l’anno prima aveva posato i palchi.
Ferma la macchina, spegne il motore e tira su il binocolo.
Tutto tace. Niente di interessante.
La pazienza non è una virtù di Matteo, anzi è già pronto a fare retromarcia quando sul finire dell’ultima binocolata si accorge di una piccola macchia uscire dal boschetto.
In un attimo “le macchie” diventano 2, 3 e poi 10. E tra tutti, anche lui.
Come non riconoscerlo.
Fiero, massiccio, elegante.
Finalmente una sagoma per quelle due corna sull’armadio che tanto aveva osservato in questi mesi.
Quest’anno non aveva ancora perso, i palchi erano entrambi ancora in testa.
I giorni seguenti si innescò automaticamente una prassi, quella di andare a binocolarlo mattino e sera per rimanere sempre aggiornato sui suoi spostamenti.
E’ la mattina del 19 marzo e qualcosa è successo.
Matteo è appoggiato al finestrino e conta: dieci cervi, uno scornato. E il suo cervo non c’è.
Il collegamento non è certo ma abbastanza probabile dal momento che due più due fa quasi sempre quattro: ha perso nella notte.
Gli impegni lavorativi sarebbero stati tanti in quel giovedì ma avrebbe trovato lo stesso il tempo.
Alle 11 del mattino sulla bordura di quel bosco di pini, a soli 200 metri dall’anno precedente, dodici punte e due basi massicce con un accenno di doppio pugnale erano lì ad aspettarlo. E c’era anche quell’immancabile profumo di resina ad avvolgerle.
Coppia!
Ancora più bella.
Ancora più pesante.
Ancora più attesa.
Matteo lo cercò ancora in tempo di bramito, ma di lui nessuna traccia.
Sparito, dinuovo, nell’immensità delle foreste di quella valle.
Arriva il 2021 e poi una nuova ondata di Covid che sembra complicare il tutto: il divieto di spostamento e l’abbondante nevicata limitano le ricerche, ma il suo pensiero è sempre lì.
Intanto nell’inverno si è attivato per capire dove e chi avesse trovato le coppie degli anni precedenti: gli piacerebbe ricostruire la storia del suo cervo.
Anche questa, una ricerca difficile e impegnativa: i veri cercatori di palchi difficilmente sono disposti a vendere i loro bottini, lo fanno per passione, ed è proprio per orgoglio che non cedono a nessuno scambio.
Marzo arriva. Ma ormai c’è una numerologia da rispettare.
Di quel cervo nessuna traccia, ma il loro appuntamento è il 13, una ricorrenza ormai.
Lo sa Matteo.
E a quanto pare lo sa pure lui.
Quella mattina nessuna novità.
Matteo ha tutta la giornata per pensarci su, è sabato e non lavora.
Nel cuore la speranza di trovare qualcosa anche quest’anno, ma negli occhi la consapevolezza che la fortuna non possa sempre girare dalla sua parte.
Apprezzare quel che finora aveva raccolto è un obbligo, non accontentarsi è la regola.
Ma quando due strade si incontrano così prepotentemente non è facile separarle.
Madre natura rispetta le scadenze, gli impegni, le promesse non scritte ma prese.
E’ il 13 Marzo 2021, sono le tre del pomeriggio.
Quel cervo è tornato dinuovo lì, dove lui lo aspetta ogni primavera.
Ha lasciato in terra sei punte, una base massiccia con un accenno di doppio pugnale e un profumo di resina inebriante. Le ha lasciate ben in vista perché lui potesse trovarle.
Ma di occhi in quel boschetto di pini ne sono passati tanti e qualcuno molto prima di Matteo.
La coppia di quell’anno rimase spaiata, ma non per sempre.
Arriva luglio. Nel comprensorio alpino è ora di decidere quale capo richiedere per la stagione venatoria. Le perplessità sono tante ma nella testa di Matteo tutto sembrava allinearsi sulla richiesta del cervo maschio adulto.
Quel cervo che spariva ogni autunno per poi ricomparire in primavera aveva scandito la sua vita negli ultimi anni, creando un legame tacito ma forte.
Ormai si era fatta largo in lui l’egoistica convinzione che se qualcuno avesse dovuto porre fine alla vita di quell’animale, allora doveva essere lui.
Che strani i cacciatori, amano le prede a tal punto da togliere la vita per omaggiarne l’esistenza.
Nell’estate aveva lavorato per cercare anche la coppie degli anni precedenti: era arrivato ad averne sei, quasi tutte consecutive tranne una, che non ritroverà più.
Era andato a cercarle nelle cataste di palchi di collezionisti, nelle case di amici e tra le foto postate da sconosciuti. Aveva raccolto il materiale fotografico dei migliori fotografi naturalisti della zona. Era abbastanza certo che il cervo avesse raggiunto il suo picco massimo, entrando quest’anno nel suo decimo o undicesimo anno di vita. Maturo abbastanza per essere prelevato. Insomma, quel cervo non aveva più segreti per lui, se non uno, fondamentale: la sua zona di svernamento. Matteo non aveva la più pallida idea di che area frequentasse nel periodo di caccia, ci aveva provato tante volte in questi anni a individuarlo ma nessuno mai lo aveva fotografato o visto in tempo di bramito.
Arrivò settembre e con lui la conferma dell’assegnazione del capo, il cervo maschio coronato.
Bisognava darsi da fare.
Una responsabilità grande.
Ci fu un mese di ricerche: ogni weekend era buono per uscire a cercarlo ma come sempre, nessuna traccia.
Era l’8 ottobre quando il telefono squillò.
Matteo era in osteria, un pomeriggio tardo, stava concludendo una della prima giornate fredde dell’anno davanti a un buon bicchiere di vino in compagnia di qualche amico.
Dall’altra parte del telefono una cara ’amica che da anni gestisce una baita in alta montagna proprio nella zona in cui il cervo aveva perso i palchi.
“L’ho visto”
“Non ci credo!”
“E’ a metà valle, sulla cresta più alta dove batte ancora il sole”.
Sollievo, per un attimo trepidazione e poi di nuovo il buio.
Da quella chiamata trascorsero altri due mesi. Interminabili.
Quelle due vite che fino ad allora sembravano essere così vicine, ripiombarono immediatamente nella loro bizzarra estraneità.
Un nascondino senza fine.
Quindici giorni a fine stagione, 16 dicembre.
La neve arrivò nella notte, prepotente e severa.
E quando arriva lei ogni carta in tavola cambia: passa, stravolge e azzittisce.
Quando si allontana si ricomincia a vivere.
E’ quella l’ora giusta.
Dopo una nevicata gli animali escono, si asciugano e cercano cibo, o almeno, questo è quello di cui si convinsero reciprocamente Matteo e Andrea quella mattina. Sapevano, o meglio speravano, che quella nevicata sarebbe stata dalla loro parte.
Rimaneva il dubbio assillante di individuare la zona da battere all’interno di un comprensorio alpino di 50 mila ettari.
Follia.
L’ultimo tassello di un puzzle che nessuno sapeva se effettivamente si sarebbe mai completato.
Un cervo che sparisce per mesi non vive vicino a strade, non vive su sentieri battuti da alpinisti e nemmeno dove la maggior parte dei cacciatori lo cercherebbe. Un cervo che sparisce per tutto l’inverno vive dove a nessuno viene voglia di cercarlo.
E c’è solo uno posto dove nessuno va mai.
E’ la valle più fredda di tutto il comprensorio: i raggi del sole per quattro mesi non la sfiorano mai, la neve ghiaccia sugli aghi dei pini e lì rimane per tutto l'inverno. Ai cacciatori piace l’avventura, certo, ma quel posto in inverno è davvero per pochi coraggiosi.
Eppure quel cervo non è mai stato alla portata di tutti.
Se quello fosse stato il loro ultimo tentativo, allora doveva esser lì, nella valle più fredda di tutte.
C’erano dei chilometri da percorrere.
Ma quando l’obiettivo è forte, i mezzi si trovano. E così fu.
Partirono a mezzogiorno, cercando di sfruttare le ore più calde della giornata.
Matteo aveva deciso che avrebbe voluto condividere con Andrea quel tentativo, lo aveva ribattezzato “Il Santino”, dice che gli avrebbe portato fortuna.
Vietato fermarsi, il tempo stringe, il buio arriva e il freddo fa male.
Ad ogni passo si consolida nella mente di ciascuno il pensiero di un fallimento quasi certo, ma sono troppo amici per confessarselo a vicenda.
Sono le tre del pomeriggio quando un timido raggio di sole illumina il ponticello di legno a metà valle stagliandosi in un immenso tappeto di brillantini. Una fortuna poter assistere a spettacoli così appaganti.
Di lì in poi la valle si apre, avrebbero potuto fermarsi un attimo, riprendere fiato, bere una tazza di tè e dare un’occhiata in giro.
Matteo si accende una sigaretta.
Andrea tira su il binocolo.
…“Santino” …già!
O forse solo la certezza che se due strade sono destinate ad incontrarsi, prima o poi troveranno il modo per farlo.
E qualcuno decise che sarebbe dovuto succedere proprio lì, in mezzo a tutto quel bianco.
Su un versante esposto a sud, a trecento metri da loro, impronte fresche nella neve. Tante. E poi musi. Molti. E sopra quei musi corna. Venti, forse di più.
E in tutto quel tumulto i due binocoli caddero proprio su quelle dodici punte con basi massicce e un accenno di doppio pugnale.
Lui.
Lo vide per la prima e ultima volta nel mirino traballante della sua ottica.
E fu emozione.
Anche per un cuore ruvido, in una valle fredda. .
Il loro inseguirsi si concluse quel pomeriggio quando il sole sparì e il buio spense quel tappeto immenso di brillantini.
Quella sera quei due corpi si toccarono per la prima volta ed insieme a quelle dodici punte ed a quel profumo inebriante di resina c’era anche un mantello lucido e dorato ancora caldo di vita.