LE COSE DIFFICILI


Io non so dove e quando ebbe inizio questa storia ma sono sicura che tutto questo accompagnerà le nostre giornate per i prossimi anni.

In un mondo in cui la tecnologia e l’avanguardia stanno spingendo l’uomo ad oltrepassare i propri limiti, i limiti della moralità e del piacere di vivere, avverto ormai la necessità di schierarmi dalla parte di coloro che sentono il bisogno di un imminente cambio di tendenza, quel tanto discusso ritorno alle origini.

Ho vissuto un’adolescenza frenetica, senza mai fermarmi a riflettere per analizzarne le conseguenze. Veloce, spensierata e tutta d’un colpo. 

Ho divorato la mia gioventù in un solo boccone e non posso non essere felice che sia andata così. 

Arriva però un momento in cui fatti e persone ti costringono in qualche modo a fermarti. A pensare. Veramente. Forse per la prima volta.

Tutto ciò a cui non avevi dato ascolto finora, adesso sembra volerti parlare.

Sebbene conoscessi la vita dei miei nonni solo attraverso i loro racconti, ho iniziato a pensare che pur non avendo niente fossero molto più ricchi di quanto lo siamo noi oggi; che tutta questa tecnologia millantata come sinonimo di progresso cela in realtà un velo di tristezza: ha vietato ai bambini di correre nei cortili, agli amici di darsi appuntamento al suono di un campanello, ai fidanzati di scriversi lettere e soprattutto di aspettarne con desiderio la risposta, alle mamme di ritrovarsi a parlare nella piazza del paese e non su un gruppo Whatsapp.

Ma d'altronde è anche giusto tornare con i piedi sulla terra, a quella che è una bellissima verità: senza il progresso tecnologico in ambito scientifico, medico e meccanico ci troveremmo privi di opportunità e salvezze che sono veri e propri motivi di orgoglio e soddisfazione. 

Insomma un gioco di forze che mi vede sempre pizzicata tra l’incudine e il martello senza sapere in che direzione far pendere l’ago della mia bilancia. 

Ma se l’unica certezza di questo mondo è che la verità sta sempre nel mezzo, le mie settimane fatte di computer, telefoni e social sfociano sempre in rigeneranti weekend offline accompagnati da grandi silenzi e lunghe passeggiate. 

Penso che nella mente di Andrea anche questa storia sia iniziata così, con un acceso conflitto tra progresso ed istinto primordiale.

Andrea è da anni nel settore venatorio che l’ha visto collaborare con grandi marchi di armi e di ottiche; grazie a loro ha avuto il privilegio di assaporare tutti i nuovi prodotti che la tecnologia ha partorito in questi ultimi anni, ne ha testato il funzionamento sul campo prima ancora che uscissero sul mercato e ha apprezzato in prima persona l’immenso aiuto che sono in grado di offrire al cacciatore: i suoi esordi sono stati accompagnati dall'arrivo del telemetro e della torretta balistica e la sua vita da cacciatore continua ad essere segnata dagli ultimi ritrovati tecnologici, prima fra tutti nonché più discusso, il termico. 

Sono attrezzi del mestiere ormai.

Indispensabili ed irrinunciabili per chi li ha provati. 

Ma se è vero che l’uomo vuole sempre quello che non ha, anche la comodità, irragionevolmente, è capace di diventare scomoda.

Io sono certa che non abbandonerà mai la sua carabina ben accessoriata ma capisco il suo sfogo: da un anno a questa parte nella sua fuciliera ha fatto spazio ad una arco e qualche freccia.

Un mondo fatto di accortezze, minuziosità e paradossalmente tanta tecnologia che però questa volta si ritrova a fronteggiare una miriade di fattori incontrollabili; perché nella caccia con l’arco è tutto il resto che conta per davvero.

Credo sia questo il motivo che l'ha messo alla ricerca di qualcosa di "più difficile”, qualcosa per cui poter dire “sono stato bravo, non solo fortunato”.

Qualcosa che sia sinonimo di brivido, rischio; di imprevisto.

Qualcosa che richieda allenamento, studio, valutazioni.

Qualcosa che assomigli un po’ di più ad una sfida “ad armi pari”. 


In questa nuova partenza ha riscoperto il piacere degli inizi, con le loro incertezze, le loro paure ed i sacrifici che comportano. Come sempre i primi passi sono stati traballanti, insicuri e pieni di dubbi. Faticosi sicuramente. 

Abbiamo imparato che la caccia con l’arco ha bisogno di dedizione e di un continuo allenamento che solo la passione può farti sopportare. 

Cinquanta frecce al giorno è quello che serve per iniziare;

scoccate a 10, 20, 30, 40 e poi a 50 metri;

in piedi, in ginocchio, dal basso verso l’alto e poi dall’alto verso il basso: non avrai tempo per sistemarti bene, il gesto deve venire spontaneo, qualsiasi condizione ci sia.

Devi essere pronto all’imprevedibile. 

Tutto quello che è controllabile da te deve essere perfetto, perché già sai che le variabili aleatorie saranno tante, troppe.

Ogni aspetto apparentemente insignificante è capace invece di fare la differenza: un braccio troppo teso, una gamba troppo chiusa, un dito mal posizionato, il naso un po’ storto e tutto cambia.


Senza entrare troppo nello specifico possiamo affermare che colpire un animale a 20 metri con una freccia corrisponde a fare un tiro con la carabina di 200 metri circa; a 40 ne corrispondono 400 e così via.

L’errore portato dal vento segue queste logiche in ugual modo. Se poi ci aggiungiamo variabili come l’emozione e il traballio del corpo al momento dello scocco, la regolazione millimetrica del mirino e la lentezza dei movimenti che devono trasformarsi in velocità d’azione, possiamo parlare del tiro come un vero e proprio gesto atletico. 

La nostra poca esperienza per mesi è stata accumulata su un bersaglio immobile, finto e senza reazioni. Il “Jump String”, letteralmente “salto della corda”, è stata una delle scoperte più curiose che abbiamo fatto. 

Parlo al plurale perché ogni scoperta di Andrea è anche un po’ mia.

Per iniziare vorrei spendere due parole sull’etimologia del termine. La sua derivazione inglese testimonia il fatto di quanto poco questa pratica sia conosciuta in Italia:  gran parte delle informazioni che siamo riusciti a racimolare in questo anno arrivano da video tutorial in lingua anglosassone, guardati e riguardati  per cercare di apprendere qualcosa in più, oltre che dai consigli di tanti amici che ci hanno aiutati in questa impresa che ancora adesso sembra essere più grande di noi.

Il salto della corda è il movimento che l’animale è solito fare dopo aver avvertito il rumore dato dallo scocco della freccia.

Qui entra in gioco una questione di velocità.

Il suono viaggia a 343 metri al secondo;

una palla di una carabina viaggia a circa 900 metri al secondo;

una freccia scoccata da un arco di ultima generazione viaggia intorno ai 100 metri al secondo.

Facendo due conti si deduce che il suono dello sparo di una carabina arriva all'animale dopo il proiettile: il colpo infatti viaggia più veloce del suono e raggiunge l’animale prima del boato. Il suono della freccia scoccata, invece, arriva all’orecchio dell’animale prima della freccia stessa. In questo breve arco di tempo l’animale mette in atto una reazione di fuga che funziona un po’ come una molla: si schiaccia al terreno pronto a fare un salto. Così facendo quando la freccia raggiunge l’animale lui è già schiacciato a terra, di conseguenza la freccia andrà sopra il punto d’impatto ipotizzato dal tiratore, tante volte passando sopra la schiena. E’ un meccanismo interessante, che non è detto accada, ma che suggerisce di mirare leggermente più basso del dovuto.

Sono tutte considerazioni, piccole pillole, che a mio parere danno un’idea della difficoltà di questa caccia. 

E per quanto riguarda l’etica del colpo ci sarebbero tante cose da dire ma l'unica considerazione che mi sento di fare è che una freccia ben piazzata è mortale allo stesso modo di un proiettile. La vera etica è fare tutto quanto in tuo potere affinché colpisca nel punto giusto. 

C’è poi la parte più emozionante, quella che giustifica il tutto, che ripaga le fatiche e che crea i ricordi, quelli indelebili e vividi: l’avvicinamento. 

E’ quello che in fin dei conti ti rende cacciatore. 

La distanza di tiro consigliata è di 20 metri, praticamente utopistica se parliamo di caccia alla cerca. Con il dovuto allenamento e un’adeguata attrezzatura 40 metri  diventano una distanza ragionevole alla quale, però, bisogna essere preparati.

E a 40 metri l’animale lo vivi. 

Lo senti.

Lo annusi.

E vi assicuro che in quel pugno di metri ci rimarresti delle ore, senza accorgerti del tempo che passa; hai bisogno di goderti tutto quanto. 

Perchè per arrivare fin lì ne avrai fatta di strada.

Di tentativi. Di prove. Di strategie. Di fallimenti.


Andrea è un amante delle caccia vagante, la nostra non è mai una caccia d’appostamento, nemmeno con la carabina; il che rende tutto più difficile. Ma in fondo è stato proprio lui a volersi cercare quel “qualcosa di difficile”.

Bisogna studiare gli animali al punto da conoscere ed anticipare la loro prossima mossa, intercettare i loro sentieri e le loro abitudini. Ogni pendenza del terreno è un nascondiglio utile per camuffare odori e movimenti veloci, a volte indispensabili: diventa fondamentale conoscere a memoria il territorio. A volte è la rifrazione della luce sul volto a tradire.

E’ proprio per questo che arrivare a 30 metri da un animale è già di per sé un successo che va assaporato. 

Dopo un anno di allenamenti su sagome decidemmo che fosse arrivato il momento di partire, di mettersi alla prova.

Così, accettato l’invito di un caro amico madrileno, imbarcammo su quel volo di linea per la prima volta l’arco e già il fatto di non dover passare al controllo armi della polizia ci sembrò una partenza entusiasmante. 

Le colline di papaveri e le immense distese di grano della Spagna hanno creato uno straordinario gioco di colori che per due giorni ha riempito i nostri occhi di meraviglia. Il rosso, l’oro e poi di nuovo il rosso. 

Essere lì, immersi in quella cartolina era già di per sé un privilegio. 

Ramon, uno dei nostri più cari amici, è un tipo buffo che sa il fatto suo, ha un bassotto, Renzo, che è la sua ombra ed è proprio con lui per due giorni ci ha guidato tra i prati di casa sua; i caprioli che abbiamo visto lì penso  non li vedremo mai più in vita nostra: tanti, belli, particolari, uno diverso dall’altro. Ma a noi del palco non interessava nulla: l’impresa era già complicata di suo, qualsiasi animale sarebbe stato un bellissimo trofeo. 

Partimmo la mattina presto per cercare di evitare le ore più calde della giornata. 

L’entusiasmo e l’agitazione era palpabile: seguivo Andrea con la telecamera e di tanto in tanto lo vedevo fermarsi per ripetere quel gesto tanto difficile che nei mesi prima aveva cercato di mettere a punto: piedi, mento, labbro e naso.  

I primi avvicinamenti furono un vero e proprio buco nell’acqua: il grano alto e gli spostamenti di tre persone erano troppo rumorosi.

Dovevamo cambiare strategia. 

Terminammo la mattinata alle 10.30 con un bagaglio di insuccessi e delusioni che ci fece ripiombare tutti in un silenzio di tomba, davvero insolito anche per Ramon,  conosciuto per il suo irrefrenabile ottimismo. 

Il caldo di mezzogiorno ci costrinse alla tradizionale siesta iberica: ci cucinarono una rivisitazione della paella (fideuà) di cui abbiamo ancora ben impresso il gusto e dopo pranzo ci allenammo tirando una trentina di frecce. 

Anche il riposo doveva in qualche modo essere produttivo. 

Erano le quattro del pomeriggio  quando ci ritrovammo nuovamente ad osservare dall’alto i prati di papaveri che avevamo solcato durante la mattina. 

I caprioli erano tornati in grandi quantità a ripopolare quei campi: ne potevamo contare quattro. Come al solito, otto occhi vedono meglio di due e quattro nasi annusano meglio di uno: avere così tanti animali poteva esserci d’aiuto ma allo stesso tempo trasformarsi in una potenziale difficoltà.

Decidemmo che era meglio dividerci: Ramon avrebbe aspettato lì, continuando a monitorare l’azione dall’altro, mentre io avrei seguito Andrea rimanendo però a qualche metro di distanza, lasciando decidere a lui quando e come muoversi. 

Io avrei seguito alla lettera tutto ciò che mi avrebbe detto. 

Quei caprioli sono stati una prima volta anche per me: non avevo mai filmato una cacciata con l’arco, le accortezze da mettere in campo anche con la telecamera erano tantissime e sarebbero serviti movimenti lenti ma veloci. Aiuto!

Lo seguivo cercando di evitare i legnetti del sentiero mettendo a punto uno slalom tra le foglie di cui sarei potuta andare fiera.

Avevamo fatto 100 metri in discesa quando ci attraversarono la strada di corsa due caprioli. Non eravamo certi che gli altri due fossero rimasti dov’erano ma Ramon dall’alto ci disse di proseguire. 

Sempre più piano, sempre più silenziosi verso quel grande cespuglio che ci teneva nascosti dalla vista di quel campo. Ogni passo fu pretesto per ricontrollare la direzione del vento. 

Prima degli ultimi 20 metri Andrea si preparò: incoccò la freccia e provò il suo solito movimento di apertura, per l’ultima volta. Poi ripartimmo a passi quasi immobili desiderosi ed impazienti di scoprire se dietro quelle fronde ci fosse ancora quel paio di palchi al pascolo. Fummo attenti a non tradirci con le nostre stesse mani: ci ricordammo di coprire il volto con la bandana che avevamo al collo in modo tale che la pelle non riflettesse la luce.

Io mi fermai e lo mandai avanti. 

Ci dividevano pochi passi, forse una decina, quel tanto che bastò a lui per accorgersi che tra il grano e i papaveri c’erano ancora sei puntine che brucavano.

Il resto fu davvero spontaneo, così come doveva essere. A me sembrò da manuale.

Aprì l’arco e stette fermo. 

10, 15 secondi forse, che sembrarono ore. 

L’emozione di quel momento dilatò il tempo.

La Fortuna era lì con noi, a braccetto della Tenacia.

Si erano trovate per regalarci un’emozione nuova, quella che si scatenò dall’ondeggiare del grano mosso da un capriolo a 45 metri da noi. 

Io non vidi nulla di ciò che accadde per davvero ma quelle fronde che mi nascosero tutto mi regalarono in realtà la bellezza del saper ascoltare. 

Quando i nostri passi si fermarono fu la natura a parlarmi: 

sentii il calpestio degli zoccoli sul terreno, lo strusciare delle spighe sul pelo e il masticare dei denti. E quando i suoni furono vicini abbastanza da poterli vedere sentii lo scoccare di una freccia. 

Restammo immobili mentre il grano lì vicino sembrava attorcigliarsi su se stesso.

Io quei suoni non li avevo mai sentiti in vita mia e credetemi se vi dico che fanno battere forte il cuore.

E il mio cuore avrebbe battuto un po’ più piano se avessi visto anziché sentito.

Noi e il capriolo per qualche strana ragione ci venimmo incontro reciprocamente, lui senza saperlo. 

La Fortuna giocò le sue carte, ma da lì in poi la bravura fece il suo corso. 

Quel capriolo preso nel collo mirando la spalla a 43 metri di distanza fu un azzardo che ci fu concesso. 

Le distese della Spagna sei mesi dopo lasciarono spazio alle montagne di casa.

Reduci da quella che fu una delle esperienze più emozionanti decidemmo di riprovarci in una fredda mattina di dicembre: la notte ci aveva portato una bella nevicata e i camosci, nel pieno dell’amore, ci avrebbero regalato uno degli spettacoli più belli che la montagna possa regalare; il loro manto scuro riflesso sulla neve bianca è quello che tutti i cacciatori di camosci aspettano. 

Era la nostra occasione. 

Partimmo nuovamente in tre. 

L’aria di casa ha un sapore tutto particolare e queste montagne sembravano avere meno segreti che i campi di papaveri spagnoli; il territorio offre più nascondigli e dopo anni di osservazioni possiamo ipotizzare con un minimo di probabilità i percorsi degli animali. 

Ma è quando pensa di sapere tutto che casca l’asino. 

Due avvicinamenti nella stessa mattinata sono stati qualcosa di impensabile, certamente, e di questo possiamo esserne orgogliosi: grazie anche all’aiuto di un amico, nonchè guardia dell’Azienda Venatoria che ci ha ospitati, abbiamo di nuovo assaporato l’emozione del calpestio degli zoccoli, questa volta sulla neve fresca.

Ma quello che in un primo momento ci sembrò meno difficile si rivelò in realtà un completo fallimento: per ben due volte, prima a 45 poi a 38 metri, su due branchi di camosci diversi, la freccia di Andrea non sfiorò nemmeno il camoscio, come a testimoniare il fatto che il Jump String è una marionetta beffarda nelle mani della Fortuna e che l’allenamento che aveva leggermente tralasciato per seguire il lavoro ci stava ormai presentando il suo conto.

Salato ma giusto. 

Perchè se tutto fosse stato facile, non l’avremmo voluto. 

Noi non sappiamo ancora dove questa avventura ci porterà, se lontano nel mondo o a due passi da casa, ma siamo sicuri che per sentire ancora una volta quel calpestio di zoccoli valga la pena imparare anche “le cose più difficili”. 


… e adesso GUARDA ANCHE IL VIDEO!


Marta Chiattone

Classe 1995, nata e cresciuta a Moncalieri, ai piedi dell’arco alpino piemontese. Conseguita la laurea magistrale in Amministrazione Finanza e Controllo ma consapevole della serenità che la montagna è in grado di trasmetterle, abbandona l’ambito economico per dedicarsi full time al settore dell’outdoor. Muove i primi passi come content creator per il compagno, e poi marito, Andrea Cavaglià, iniziando fin da subito a seguirlo nel mondo. L’attrazione verso i particolari e l’entusiasmo per le storie di vita quotidiana segnano il suo percorso da narratrice: la semplicità dei sentimenti e le sfaccettature nascoste diventano la cornice perfetta per arricchire video e racconti di un mondo venatorio per lei a volte troppo sterile di emozioni.

“Siamo avventura, impeto, sentimento ed eleganza “.

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