TRA CACCIA E FILMATI - I retroscena di un viaggio oltreoceano


Lo ricordo come se fosse ieri. Lo ricorderò sempre. 

Era un pomeriggio caldissimo di fine Luglio del 2019, nel pieno della sessione estiva universitaria, la mia ultima sessione. Avevo davanti a me un plico di appunti di diritto tributario, quello che sarebbe stato il mio ultimo esame della laurea magistrale. L’impazienza di raggiungere un traguardo ormai imminente lasciava spazio spesso e volentieri alla spossatezza della calura estiva mista alla noia di una materia mai piaciuta, e per questo tralasciata come ultima.

Occhi che scorrendo le pagine si limitano a guardare anziché vedere; concetti apparentemente semplici che necessitano di due o tre letture prima di essere capiti; evidenziatori che sottolineano anche le banalità più assurde pur di testimoniare l’avanzata  di uno studio menzognero e superficiale. Qualsiasi studente in sessione estiva son sicura che capirà. 

Per trovare sollievo a quello che ormai era diventato un tormento, avevo raggiunto i nonni nella casa di campagna, ad una manciata di chilometri da Torino: poche distrazioni, poca connessione e la pace di quel posto che ha segnato la mia infanzia sarebbero potuti essere la soluzione a tutto.

Erano le due del pomeriggio quando, dopo un pranzo leggero, avevo finalmente ritrovato la concentrazione.

Proprio in quel momento il telefono si illuminò. 

Messaggio di Andrea.

Tentai di girare la testa dall'altra parte per convincermi che non fosse mai arrivato niente e quindi riprendere il mio studio matto e disperatissimo, ma in realtà la tattica non servì a molto.

Incredula di come fosse potuto arrivare il messaggio, data la connessione orrenda di quel posto, e con la concentrazione ormai ritornata a livelli minimi, prendo in mano il telefono e ovviamente leggo.

Sul messaggio testuali parole “Ho confermato anche per te i biglietti per l’America”. 

Nella mia testa il vuoto. 

Rileggo due o tre volte. 

Il vuoto, ancora. 

Nonostante mi stessi impegnando per cercare di decifrare quella che era diventata la mia nuova problematica, il vuoto e l’assenza di connessioni logiche dominavano la mia testa: non solo nelle ultime settimane non ero mai stata coinvolta in nessun discorso che riguardasse l’America ma non ero nemmeno a conoscenza di suoi viaggi oltreoceano, di conseguenza l’unica risposta che riuscii a partorire fu:  

Hai sbagliato a mandare messaggio”. 

Due minuti dopo squillò il telefono.

Il nostro viaggio inizia qui.

Il mio viaggio inizia qui.  

In questo pomeriggio di mezza estate, a due passi dalla laurea, quando sei certa di avere una scala di priorità ben precisa nel tuo percorso e la vita in uno schiocco di dita te la sconvolge.

Dall’altra parte del telefono Andrea mi spiegò brevemente che tre diverse realtà americane erano interessate a sviluppare contenuti pubblicitari, che lui avrebbe assolutamente avuto bisogno di un aiuto con le telecamere e che saremmo partiti, in due, a fine Ottobre.

Biglietti e progetti già confermati. 

Immediatamente massa di problematiche mi si riversò addosso.

Tutte non indifferenti, tra l’altro.

O meglio, all’epoca mi sembrarono ostacoli insormontabili. 

Cercai di organizzarle in un pensiero sensato per  non offendere chi pensava di avermi dato una bella opportunità e decisi di discuterne soltanto tre.

Primo problema, il più grosso: la laurea.

Nella settimana dopo la partenza avrei dovuto consegnare la tesi, revisionarla con il relatore e prepararmi per la discussione, beffardamente programmata per il giorno seguente il rientro in Italia. 

Secondo problema: il volo. 

L’aereo non è un divertimento per me. Non lo è mai stato, non lo sarà mai. Ho imparato nel tempo a mitigare la paura ed a “tollerarlo” come mezzo di trasporto dal momento che la sua esclusione sarebbe stata troppo invalidante. Detto questo, 18 ore di volo e tre scali seguiti da un altro tot di voli interni sarebbero stati davvero troppo per una come me. 

Terzo problema: le competenze. 

Fino ad allora io e Andrea non avevamo mai lavorato insieme, non era per quello che stavo studiando. Seppure mi piacesse molto, avevo solo qualche nozione base di fotografia ma niente di più. Sicuramente non le capacità per affrontare venti giorni di lavoro retribuito.

Furono settimane di ripensamenti e incertezze, finché accettai. 

Per la prima volta fu una decisione di pancia e non di testa.

Presi coraggio, diedi il mio ultimo esame e lo superai con il massimo dei voti. 

Mi esercitai tutta l’estate con la telecamera, per arrivare pronta.

Rimandai la laurea di un trimestre.

Così, il 22 Ottobre 2019, salii su quell’aereo. 

Il volo stesso fu una scoperta, molto meno traumatico di cosa pensassi, me lo godetti tutto. Toccammo il suolo americano a Denver, in Colorado, e già durante l’atterraggio l’emozione si fece sentire: l’idea di essere oltreoceano mentre sorvolavo quei paesaggi sempre visti in tv fu una bella scarica di adrenalina. Andrea non mi lasciò indagare più di tanto sulle nostre destinazioni, voleva che tutto fosse una scoperta.

Ricordo poco del terzo volo che ci portò verso la nostra prima meta, l’Idaho: un po’ per il fuso orario, un po’ per la tensione dormii tutto il tempo. Atterrammo nel mezzo di una tormenta di neve in un piccolo aeroporto di montagna al confine con il Wyoming, costellato di orsi ed elk imbalsamati e ridondante di avvertimenti per i turisti sulla pericolosità degli animali. Arrivammo a destinazione nella notte, con una valigia in meno all’appello, ma con l’entusiasmo di due bambini sotto la prima nevicata dell’anno.

Ci accolsero Lars e sua moglie Jennifer e fu subito casa, anche a 9000km di distanza dalla nostra.

La mattina presto, aprendo le finestre del cottage, incontrammo l’Idaho. 

Dolci distese di praterie solcate da chilometri di staccionate, il cielo azzurro, e le nuvole basse; il massiccio del Teaton innevato per annunciare l’inverno ormai alle porte. Di tanto in tanto qualche rara ma larghissima strada. In America tutto è esasperato: le dimensioni dei suv, le distanze che collegano un paese all’altro, le distese immense intervallate dai fiumi. 

In questo angolo di mondo, a pochi chilometri dall’ingresso sud del parco dello Yellowstone, Lars e Jennifer avevano trovato la giusta dimensione per crescere una famiglia e realizzare il loro sogno. Un’idea pazza, a detta loro, il “Crazy Dream” che hanno sempre rincorso e che noi abbiamo cercato di raccontare nel nostro video.

Le voci tremanti di questa coppia coraggiosa narrarono la storia di chi, partito dalla Svezia insieme ad un team di venticinque ragazzi, è riuscito a trasportare oltreoceano una tradizione gelosamente custodita in terra inglese: il drive. 

Una sfida entusiasmante, difficile, a tratti quasi impossibile, per qualcuno presuntuosa. 

Il sogno di Blixt and Co. nelle parole di Jennifer: “Quando Lars, mio marito, mi ha chiamata chiedendomi se volessi mettere nero su bianco questa idea, gli ho detto “sì” più velocemente di qualunque altro sì che io abbia detto nella mia vita. Penso ci sia qualcosa di elettrizzante nel provare qualcosa di nuovo, qualcosa di cui non esistono manuali o leggi scritte: l’unico motivo per cui esistono è perché tu lo stai immaginando. Il sogno era quello di provare a costruire l'inaspettato e sono contenta che ci siamo riusciti, sono contenta che abbiamo preso al volo l’opportunità di realizzare questo Crazy Dream, il nostro sogno pazzo.”

Sono parole che ricorderò, più vicine e simili a quello che stavo vivendo di quanto immaginassi. Insomma, avevo lasciato la laurea in sospeso dopo ormai venti anni di studio per seguire Andrea dall’altra parte del mondo e cimentarmi in qualcosa di cui non sapevo niente: ci doveva essere qualcosa di “pazzo” anche nella mia decisione, in fondo.

E con lei quella mattina avevo trovato una spiegazione: quella pulsione elettrizzante di inseguire l’inaspettato forse, per la prima volta, aveva rapito anche me.

Oggi sono abbastanza certa che andò così.

La caccia era così organizzata: una linea di otto fucili veniva piazzata nella gola del canyon che un piccolo fiume aveva scavato negli anni, mentre dall’alto i battitori spingevano i fagiani verso le poste. Come in ogni drive che si rispetti, non mancavano i labrador per il recupero dei capi abbattuti e le “elevenses”, ogni giorno in un posto diverso. Lo stesso abbigliamento impeccabile di tutti gli organizzatori coinvolti nella battuta era di stampo decisamente british: il tweed con i calzettoni e il basco come copricapo. 

Rimanemmo lì per cinque giorni, nei quali alternammo momenti di svago a quelli di lavoro.

Riuscimmo a prenderci mezza giornata di riposo per visitare i grandi parchi: il mio sogno di intravedere qualche orso svanì dopo otto ore percorse in macchina tra le distese di foreste del Grand Teton Park mentre la speranza di Andrea di incontrare Elk e Mule deer si concretizzò già alle prime luci dell’alba.

A proposito di Elk, sono ancora più grandi di quanto si possa immaginare.

Sono abbastanza certa che Andrea, quando e se, tornerà da queste parti sarà per una caccia al cervo.

La grande ricchezza del nostro lavoro è data dai rapporti umani che si creano. 

La clientela molto distinta di quella settimana ci inizializzò ad un mondo di cui conoscevamo veramente poco ma proprio qui scoprimmo che intorno ad una tavola è capace di annullarsi qualsiasi differenza di età, di lingua… e anche di portafoglio. Fummo invitati a condividere una bottiglia di Romanè Contì La Tache ‘88  con un gruppo di americani, ignari di cosa fosse quella bottiglia: se mi leggerà qualche amante del vino, son sicura che capirà la figuraccia che ci siamo fatti. 

Ma, in fondo, anche quella è diventata una bella storia da raccontare. 

Lasciammo l’Idaho su un aereo da quindici posti, più pullmino che aereo: sorvolammo le montagne del Wyoming in un tramonto rosato e fu subito nostalgia di quel posto e di quella famiglia che ci aveva accolti dall’altra parte del mondo. 

Inutile dire che la paura dell’aereo, che sembrava essersi attenuata, su questo volo tornò, prepotente e invadente. Si sa, il vento sulle montagne è sempre forte, se a doverlo sopportare è un velivolo di dimensioni ridotte, allora il disagio è quasi assicurato. A tutto questo si aggiunse una tempesta di neve che ci sorprese nel nostro scalo a Denver e comportò grossi ritardi con strane procedure anti-gelo sull’aereo: tutto molto rassicurante per gli amanti del volo come me. 

Se le dimensioni del primo aeroporto ci avevano colpito, all’arrivo in Sud Dakota rimanemmo letteralmente basiti; basti dire che lo scarico bagagli avvenne direttamente a mano, dall’aereo al cliente. Qui le attrazioni dell’area furono di nuovo ben chiare fin da subito: un grandissimo manifesto recitava “Welcome back hunters!”. Eravamo nel posto giusto.

Mi addormentai su un fuoristrada enorme guidato da Dorita, una signora di una certa età dall’accento decisamente americano, mentre attraversavamo distese infinite di mais. 

Quello che contraddistinse tutti i nostri spostamenti americani fu il buio: viaggiammo quasi sempre di notte e il risveglio nelle nuove accommodation fu sempre una grande sorpresa.

Quella mattina ci svegliammo in una “fattoria” nel mezzo della campagna. Chiamarla fattoria è riduttivo, questa fu decisamente l’apoteosi dell’accoglienza e della grandiosità americana. Nel mezzo del nulla, tra chilometri e chilometri di campi sorgeva, maestosa, la Paul Nelson Farm. Un resort cinque stelle lusso da duecento stanze, ognuna diversa dall’altra e  finemente arredata in stile indiano con un'attenzione maniacale ai dettagli: particolari che non ho mai più trovato in nessun'altra realtà. Un cinema, un tiro al piattello ed un poligono che arriva fino a 1800 metri con istruttori formati a corredare il tutto. 

Conoscemmo Paul, il proprietario della farm, a colazione e fu subito affetto.

Lo portiamo sempre nel cuore, anche oggi che non c’è più. 

Quella mattina ci ha accolti come un nonno accoglie i suoi nipoti, come d'altronde faceva con tutti i suoi ospiti, portandogli la colazione direttamente al tavolo. Decisamente insolito se si pensa che in quella settimana accolse un centinaio di persone, per lui amici. Ad ogni gruppo, poi, scattava personalmente una foto, per custodirne il ricordo sulle pareti del suo studio. Ad aiutarlo nella gestione di questo impero il figlio Erik e la nuora Tami.

Anche la sua storia è stata bella da ascoltare e voglio raccontarvela semplicemente come fece lui con noi:  “Questo è un hobby che mi è sfuggito di mano”, ci disse.

Paul nacque da generazioni di contadini, il suo sogno di costruire una realtà per la caccia al fagiano nel Sud Dakota scaturì da un passatempo che oggi porta in quella fattoria i maggiori leader mondiali. Gran parte della clientela arriva su jet privati ma siamo certi che ciascuno di loro si senta a casa tanto quanto noi in quel posto.

Quella mattina, come tutte le mattina alla Paul Nelson Farm, una sirena suonò e dal mezzo di una nuvola di polvere uscirono a ritmo sostenuto tre bus su un sottofondo musicale rock;  l’abbaiare dei labrador caricò di energia ogni spettatore, impaziente di salirci sù per raggiungere i campi.

La caccia iniziava così. Sempre. Lo aveva deciso Paul.

Un caccia totalmente differente da quella di Blixt: l’avanzare lento della linea di fucili anticipati dai cani che, correndo tra i filari di sorgo ricoprivano il ruolo dei battitori, sollevava in volo i fagiani nascosti al suo interno; potevano essere abbattuti soltanto i fagiani maschi che, all’esclamazione di “Roooster”, ricadevano inermi tra le foglie taglienti di quei campi immensi.

In questa pianura sconfinata, di tanto in tanto intervallata da pietre circolari di vecchi tepee indiani, si respirava un’aria intrisa di storia: ciò che oggi era un ritrovo per cacciatori da tutto il mondo fu in passato scenario di scontri tra nativi e conquistatori.

La mente vaga e l'immaginazione spazia, specialmente la mia che cerca sempre di raccogliere l’essenza in ogni viaggio. E così immaginai. Tribù e piume, cavalli e Pellerossa.

Il Covid si portò via anche Paul nell’Agosto 2020 ma siamo sicuri che se un giorno avremo la possibilità di tornare alla farm, troveremo sapientemente archiviata la foto che ci scattò e il suo sorriso arricciato sarà ancora il biglietto da visita di quell’oasi di tranquillità in mezzo a deserti di grano. 

Richiuse le valigie partimmo alla volta dell’Oregon, sulla costa ovest americana, la nostra ultima tappa.

Arrivammo lì la notte di Halloween, una festa decisamente sentita da quelle parti.  

Ancora una volta un cambio evidente di paesaggi e tradizioni. 

L’Highland Hill Ranch sorgeva sui canyon al confine con la California del nord, il vero Far West insomma. Attraversammo interi villaggi disabitati con un’unica insegna lampeggiante, quella di una pompa di benzina con qualche vecchia Cadillac abbandonata davanti. 

La nostra permanenza lì si limitò a qualche giorno, durante i quali riuscimmo a filmare un terzo tipo di caccia, ancora una volta diverso dai due precedenti. Il cacciatore, accompagnato da due differenti tipologie di cani, vagava tra i canyon di terra rossa scavati dal fiume; una volta individuato il selvatico, il cane da ferma, così chiamato pointing dog, doveva rimanere immobile aspettando l’arrivo del flushing dog che avrebbe provveduto ad alzare l’animale. L’obiettivo era quello di proporre al cacciatore il Grand Slam ovvero l’abbattimento di quattro specie differenti in un’unica cacciata: il fagiano, il colino della California, la Chukar e la starna.

La sorpresa di questa realtà fu James, un ragazzo Californiano, allenatore di cani, che da anni seguiva Andrea sui social. Un incontro speciale a 9000 km da casa.

L’ultima sera venne organizzato un grande falò e proprio davanti a quel fuoco fu ora di tirare le somme. 

Le somme di quel viaggio di cui tanto avevo sofferto l’inizio.

Non avevo mai patito una partenza, anzi, l’avevo sempre aspettata con trepidazione e impazienza. E invece quella partenza fu destabilizzante, travolgente, scomoda si può dire.

Il mio bagaglio di esperienze raccimolate con fatica fino lì, a poco sarebbe servito. 

Un’altra lingua ancora difficile da capire e da digerire.

Un obiettivo di vita lasciato a metà per una fotocamera di cui sapevo poco. 

Eppure su quel volo le paure divennero opportunità.

A volte ci vuole anche un po’ di coraggio per lasciarsi stravolgere.

Partire senza sapere cosa sarà, ma sapere che non poteva che essere così.  

Godersi il viaggio e gli incontri sul cammino, quelli sì che sono ricchezza.

Lasciarsi accogliere e sedersi ad ascoltare. Storie, suoni e accenti diversi.

Custodirli, trasformarli e condividerli. 

Così è il nostro lavoro.

Una continua ricerca di belle storie da raccontare, ovunque esse siano.

E se questo comporterà ancora un salto nel vuoto, allora sarò un po’ più pronta per saltare. 

e adesso GUARDA ANCHE IL VIDEO!

Marta Chiattone

Classe 1995, nata e cresciuta a Moncalieri, ai piedi dell’arco alpino piemontese. Conseguita la laurea magistrale in Amministrazione Finanza e Controllo ma consapevole della serenità che la montagna è in grado di trasmetterle, abbandona l’ambito economico per dedicarsi full time al settore dell’outdoor. Muove i primi passi come content creator per il compagno, e poi marito, Andrea Cavaglià, iniziando fin da subito a seguirlo nel mondo. L’attrazione verso i particolari e l’entusiasmo per le storie di vita quotidiana segnano il suo percorso da narratrice: la semplicità dei sentimenti e le sfaccettature nascoste diventano la cornice perfetta per arricchire video e racconti di un mondo venatorio per lei a volte troppo sterile di emozioni.

“Siamo avventura, impeto, sentimento ed eleganza “.

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UN CACCIATORE LO SA.